Ricette

giovedì 23 aprile 2020

La Signora delle Comete: una storia bellissima. Con pranzo inglese.


“Si dice che quando una persona guarda le stelle è come se volesse ritrovare la propria dimensione dispersa nell’universo”.
Salvador Dalì


 Vincent van Gogh, La notte stellata sul Rodano, olio su tela, 1888 - Musée d'Orsasy, Paris
 
Questa sembra una fiaba, invece è una storia vera. Bellissima. È la storia di una cacciatrice di stelle. È la storia della prima donna al mondo che scopre una cometa. Anzi sette.

Inizia nel marzo 1750 a Hannover, nella Bassa Sassonia, quando nasce Caroline Lucretia da  Anna Ilsen Moritzen e Isaac Herschel, una coppia dalle finanze magre ma dove non manca l'attenzione alla formazione dei sei figli, quattro maschi e due ragazze. Per la verità il personaggio chiave, sotto il profilo culturale, è il padre Isaac, ottimo e stimato musicista, dapprima suonatore d’oboe e quindi direttore nella Banda delle Guardie della Fanteria di Hannover.
Isaac non fa distinzioni di genere fra i figli e anche alle bambine vuole impartire un buon livello d’istruzione. Non così la moglie che, al contrario, ritiene inutile e improprio che le figlie s’interessino ad altro che non sia l’economia domestica. Ma la sua linea castrante nei confronti delle ragazze risulterà perdente. Caroline ha molti ricordi degli insegnamenti, degli stimoli derivanti dal suo papà, fin da quand’era bambina.  In particolare, nel suo diario scrive di una sera senza luna quando lui la porta a passeggiare per osservare le stelle, “per familiarizzare con alcune delle più belle costellazioni e per ammirare anche una cometa allora visibile”.
Lei ancora non lo sapeva ma quelle escursioni notturne avrebbero determinato e cambiato la sua vita.


Un’annotazione storica che spiega molte scelte del “dopo”.  All’inizio del 1700 al trono d’Inghilterra, Scozia e Irlanda era salita Anne del casato Stuart. Il 1° maggio 1707 dall’unione del regno d’Inghilterra e del regno di Scozia nasce un unico Stato, la Gran Bretagna, e Anne ne diventa la prima sovrana. Alla sua morte, nel 1714, il trono – tra grandi manovre e molti tentennamenti – passa a Georg Ludwig von Hannover, il quale,  malgrado sia solo un lontano cugino di Anne per ascendenza materna e non possa vantare sangue britannico,  ha un requisito  all’epoca determinante: era Protestante e non Papalino. È incoronato come George I.  E la storia, nei secoli, non dimenticherà che questo Sovrano arrivato, a sorpresa, dalla Bassa Sassonia, non era in grado di parlare inglese (che ovviamente dovette imparare). A George I, nel 1727, succede, con il nome di George II, il figlio Georg Augustus von Hannover che regnerà fino al 1760, data della sua morte, portando ai suoi sudditi  pace e prosperità. Il nuovo erede è il figlio Georg Wilhelm Frederick von Hannover che prende il nome di George III, re di Gran Bretagna e Irlanda.



Georg Ludwig von Hannover,  George I re di Gran Bretagna dal 1714 al 1727


Questa "conquista" del trono inglese da parte di una dinastia tedesca spiega, almeno in parte, perché la storia della famiglia Herschel si sposti da Hannover all'Inghilterra.
Il “dopo”, infatti, vede i quattro fratelli diventare, tutti, musicisti ma per uno di loro –Wilhelm – sarà il distacco dalla casa paterna e con questo la fama, che arriverà percorrendo ben altri sentieri. In seguito altrettanto sarà per la sorellina Caroline, minore di dodici anni.


Siamo nel 1757, è in corso la grande guerra detta “dei sette anni”. La Francia invade l’Hannover e Isaac deve abbandonare l’oboe per imbracciare il fucile. Il secondo figlio, Wilhelm, diciannove anni, invece, si trasferisce in Inghilterra per coltivare il suo sogno di musicista e compositore: suona violino e organo. È molto bravo. Approda prima a Durham, poi a Halifax dove rimane alcuni anni  perfezionando le sue competenze musicali, dando lezioni di musica, impiegandosi come organista e studiando lingue. Il suo nome originale è abbandonato in favore di “William”, decisamente più britannico. Nel 1766 lo si ritrova a Bath, organista presso l’Octagon Chapel. E proprio qui, a Bath, prende il via la sua inarrestabile passione che determinerà un folgorante successo, una fama al di là del tempo: l’osservazione del cielo.


 Octagon Chapel, Bath



Torniamo al 1757. Caroline è confinata a casa con quel che resta della famiglia, attendendo il ritorno del papà. Che, quando avviene, vede approdare a casa un uomo stanco e malato, bisognoso di cure.  La strada della bambina sembra tracciata. Anche perché, verso i dieci anni, una grave malattia – forse il tifo – ferma per sempre la sua crescita: da adulta non supererà i 130 centimetri di altezza. Una ragazza mignon che non può neppure contare sulla bellezza: chi mai potrebbe sposarla? Secondo le aspettative della madre, Caroline resta dunque in casa come infermiera, cameriera e governante. E però il destino ha per lei ben altro in serbo: quando Caroline ha circa 22 anni, William la cerca e le propone di trasferirsi da lui, a Bath, dove  avrebbe potuto sfruttare almeno un dono importante che la natura le aveva concesso: una bellissima voce. Fatta per cantare e incantare. E infatti lei s’impone. Incoraggiata e guidata del fratello, ormai stimato insegnante e noto organizzatore di festival musicali, si presenta al pubblico ottenendo applausi e riconoscimenti. Un futuro appagante l’attende.
Eppure, ancora una volta, la sua vita avrebbe imboccato una strada diversa. Caroline, rifiuta offerte di lavoro stabile, anche prestigiose come quella del Festival stabile di Birmingham, per affiancare il fratello nelle sue scorribande celesti e nella costruzione di telescopi con elevate capacità ottiche: la giovane donna mette subito in evidenza una grande abilità nella molatura degli specchi e nell’assemblaggio delle varie parti degli strumenti, abilità che manca a William.




Con sofisticati strumenti  e non comune capacità di osservazione, arrivano i risultati: una certa notte del Marzo 1781 – per le cronache dell’epoca tra il 13 e il 17 –  l’astronomo individua un nuovo corpo celeste che ritiene essere una cometa. E così la presenta alla Royal Society. Ma alcuni dubbi sulla conformazione e molti calcoli sull’orbita, che coinvolgono anche altri astronomi, rivelano la vera natura del corpo celeste: è un pianeta, il primo “sfuggito” agli antichi. William avrebbe voluto chiamarlo “Georgium Sidus”, in onore del re – all’epoca George III – ma dai varî dibattiti che si aprono sull’argomento si fa strada ”Uro”, nome del genitore di Saturno.



Urano, il gigante di ghiaccio, 13-17 marzo 1781
Settimo pianeta del sistema solare in ordine di distanza dal sole, terzo per diametro, è pari a quattro volte la massa terrestre. 

Per William è immediatamente la Fama (con la “F” maiuscola).  Tanto che il  Sovrano vuole dare lustro al  suo regno nominando Herschel "Astronomo personale del Re", con un appannaggio di 400 sterline all’anno e l’onore di essere “Sir”. William trasferisce quindi la sua residenza a Slough, nei pressi di Windsor.
Il successo di William poggia largamente sul contributo intelligente e costante di Caroline, che però resta nell'ombra e si schermisce: “Non ho fatto nulla per mio fratello, se non ciò che un cucciolo di cane ben addestrato avrebbe fatto, vale a dire, ho fatto quello che mi ha comandato”. 





Ma il destino non vuole che Caroline sia sempre e solo una gregaria come pretenderebbero le convenzioni dell'epoca. E neppure lo vuole William che la conosce molto bene, che ne apprezza le capacità, l'intelligenza, l'abilità, la curiosità, l'acume. E pensa che la "sorellina" possa regalare al mondo sorprese che lasciano il segno: così progetta e costruisce un telescopio solo per lei, pressandola affinché proceda in autonomia allo studio del cielo. E lei non lo delude.





Il 1° agosto 1786 Caroline Lucretia scopre la sua cometa. È la prima donna al mondo a ottenere un risultato di tale portata. La cometa sarà battezzata "First lady's comet".

Un successo che continuerà con altre sei comete:  21 dicembre 1788, 9 gennaio 1790, 15 dicembre 1791, 7 ottobre 1793, 7 novembre 1795, 6 agosto 1797:  di queste, per almeno cinque è stata riconosciuta senza ombra di dubbio la “primogenitura”. In più, oltre alle comete nel suo percorso c’è un incredibile volume di calcoli numerici necessari per rendere utilizzabili dalla scienza le rilevazioni degli astronomi.
C’è anche un attento, complesso lavoro di catalogazione d’importanti nebulose e ammassi stellari, segnalati anche dal fratello William. In particolare per questo contributo Caroline riceve la medaglia d’oro dall’Astronomical  Society of London  nella quale è ammessa quale Membro onorario: una donna per la prima volta…
Altrettanto inusuale è il salario” – seppure modesto – che le viene elargito da Sua Maestà George III,   ancora una volta per la sua collaborazione alle ricerche del fratello.  Eppure lei è già la Signora delle comete. La prima Signora delle comete.


Caroline Lucretia Herschel


William muore nel 1822 e Caroline, che pure aveva seguito e sostenuto e aiutato in una folgorante carriera  anche il nipote John Frederick William – un genio: matematico, fisico e astronomo - decide di tornare  a Hannover dove vive ancora a lungo continuando a elaborare calcoli e a compilare cataloghi di fondamentale importanza per la conoscenza del cielo e  lo sviluppo dell’astronomia. E sovente ricevendo visite, testimonianze di ammirazione e di ricordo anche dai nuovi sovrani di stirpe tedesca che hanno attraversato la sua vita.
La prima donna al mondo che abbia scoperto una cometa, la schiva cacciatrice di stelle chiude gli occhi a 98 anni, la mente ancora lucida.  Il mondo le rende omaggio: si sarebbe accontentata di essere gregaria, invece Caroline Lucretia Herschel era lei stessa una stella.

William aveva scritto: "Non puoi aspettarti di vedere al primo sguardo. Osservare è per certi versi un'arte che bisogna apprendere".





Nelle cronache dell’epoca che raccontano di Caroline Lucretia, William e il nipote John non c’è alcuna traccia di anche un solo pasto che i grandi astronomi abbiano gustato (o detestato).  Così questo blog compie una scelta arbitraria, apparecchiando la tavola. All’inglese, naturalmente.





Ricette

Il Roast beef con la sua salsina

patate arrosto e Yorkshire puddings


Per 6/8 persone







Togliere la carne dal frigorifero almeno due ore prima di avviarne la preparazione, per portarla a temperatura ambiente. Preriscaldare il forno a 190°C.
Mescolare la polvere di senape con acqua, con la pasta ottenuta frizionare l’intero pezzo, salare e pepare accuratamente.
In una larga padella scaldare l’olio o il grasso d’anatra e a calore raggiunto aggiungere la lombata e rigirarla su tutti i lati (anche le due estremità!) fin quando sarà uniformemente brunita.
Posare la carne sulla gratella di una rostiera e mettere in forno per il tempo corrispondente alla cottura desiderata. Vale la pena di ricordare che l’eccessiva cottura rovinerà inevitabilmente il risultato rendendo l’arrosto asciutto e stopposo poiché le parti adatte a questo tipo di arrosto sono povere di grassi e di nervature.
A cottura ultimata togliere la carne dalla rostiera, metterla su un tagliere con la scanalatura affinché non si perdano succhi e coprirla con un foglio di alluminio. Dovrà riposare per circa 30 minuti, tempo necessario affinché i succhi interni all’arrosto si redistribuiscano mantenendo l’arrosto rosato e morbido.




Le patate



16 patate di taglia media, varietà Maris Piper o King Edward
2/3 spicchi d’aglio – timo – sale marino – grasso d'anatra

 
Preriscaldare il forno a 200°C. Pelare e tagliare le patate a pezzi di grandezza uniforme, indicativamente 4 per ogni unità.
 Intanto portare a bollore e salare l’acqua necessaria per scottare le patate: basteranno dai 5 ai 7 minuti perché dovranno essere scolate quando sono ancora ben sode.
Mettere il grasso d’anatra in una teglia che possa contenere di misura le patate e farlo sciogliere in forno. Quando ben caldo, recuperare la teglia e aggiungervi le patate, gli spicchi d’aglio, i rametti di timo e una spolverata (senza esagerare) di sale marino; rigirare con grande cura affinché il tutto risulti ben.. ingrassato. Serviranno 30/35 minuti di cottura per ottenerle dorate e croccanti


 
Gli Yorkshire Puddings
 

140 g farina di tipo 0 – 4 uova - 200 ml latte – sale e pepe q.b.
olio di semi d’arachide

In una terrina, con una frusta, battere le uova intere con il latte fino a ottenere un preparato fluido; aggiungere la farina setacciandola e continuando a battere per evitare o eliminare eventuali grumi: la pastella dovrà essere liscia e filante. A questo punto è opportuno travasarla in una caraffa per facilitarne il versamento nei pozzetti della teglia. Coprire con una pellicola tenendo al fresco.

Per la cottura serve una teglia da 12 muffins i cui pozzetti dovranno essere ben oliati e, anzi, sul fondo deve restare un po’  di olio. Pre-riscaldare il forno a 190°C  e infornare per 15 minuti  Quando l’olio appare bollente, togliere dal forno facendo molta attenzione ad evitare scottature; rimescolare la pastella e suddividerla nelle forme riempiendole fino a metà. E’ utile usare un cucchiaio per raccogliere le gocce di pastella nel passaggio da un pozzetto all’altro. Infornare nuovamente per 20/25 minuti.
 È rigorosamente vietato aprire lo sportello prima di fine cottura. 



Salsina


350 ml vino rosso, Bordeaux o Cabernet Sauvignon
4 cucchiai di farina o 3 cucchiaini da the di Maizena* – sale e pepe


Mentre le patate sono in cottura, procedere con la salsina. Recuperare in un tegame di misura media tutto il sugo rilasciato dalla carne nella rostiera, grattando bene anche il fondo, e aggiungere anche quello che eventualmente il roast beef  avrà rilasciato sul avrà rilasciato sul tagliere. Mescolare con la farina (io scelgo la Maizena) e il vino rosso. Mettere su fiamma debole, lasciar sobbollire per una decina di minuti quindi aggiustare di sale e pepe.

* Personalmente scelgo la Maizena perché non lascia retrogusto. Se si usa questa, scioglierla in una tazzina di liquido freddo (acqua o anche vino) e aggiungerla verso fine cottura mescolando bene quando la si versa nel tegame perché a contatto del calore può formare grumi.


Come servire
Se si ritiene di servire il roast beef caldo, inserirlo nuovamente per qualche minuto nel forno a 220/230 °C.  quindi tagliarlo a fette spesse, che saranno disposte sia in un grande piatto di portata (preriscaldato leggermente), affiancato dalle patate,  dagli Yorkshire Puddings  e irrorato con il sughetto. Se, invece, sarà consumato freddo (anche il giorno dopo) le fette saranno tagliate sottili.




Note utili
Il più tradizionale dei piatti inglesi usa il grasso d’anatra per la cottura perché rende i cibi croccanti mantenendone la morbidezza.

Per un ottimo roast beef  si deve scegliere carne di bovino adulto e, in particolare, una delle seguenti parti (in ordine di “eccellenza”): lombata, scamone, noce, fesa.
Per il dressing, la ricetta originale prevede che la carne sia massaggiata con una “pasta” preparata con polvere di senape lavorata con acqua. E però anche aromi come rosmarino, salvia, alloro sono sostituti sovente graditi.




La cottura è il passaggio più difficile. Per avere un roast beef  all’altezza delle nostre aspettative – al sangue, medium, ben cotto – dovremmo farci assistere dalla sonda, cioè quel termometro che si infila fino al centro del ”pezzo” da cuocere  e che ci indica il momento in cui dobbiamo togliere la teglia dal forno. In mancanza, mettiamo in funzione il sistema empirico, con forno preriscaldato a 190°C:  al sangue, 11 minuti ogni 450 g; medium, 14 minuti sempre per 450 g; cottura  completa, 16 minuti  e 450 g.




Barchette di patate al Cheddar*




8 patate di taglia media a pasta gialla (2 kg abbondanti)
170 g Cheddar inglese grattugiato grosso (praticamente sfilacciato) 3/4 di tazza di  panna acida – 8 fette di bacon fresco
olio extravergine d’oliva – Sale marino in cristalli tipo Maldon
pepe macinato fresco – erba cipollina  (o cipollotto)


Preriscaldare il forno a 200°C.  Lavare e spazzolare accuratamente le patate; asciugarle; bucarle su tutta la superficie con i rebbi di una forchettina; frizionarle con l’olio e poi dare una leggera spolverata di sale e pepe macinato al momento.
Sistemare le patate su una griglia appoggiata su un foglio di cottura da forno, infornare e lasciar cuocere per circa un’ora: le patate, al tocco, devono risultare croccanti all’esterno e morbide all’interno.
Passare al bacon. In una larga padella cuocere il bacon su fiamma medio-bassa per circa 10 minuti fin quando non sarà dorato e croccante. Eliminare l’olio in eccesso e tagliuzzare a pezzetti piccoli. Mettere da parte.
A cottura avvenuta, togliere le patate dal forno, lasciarle intiepidire  per poterle maneggiare. Con un coltello lungo (ben affilato) tagliarle a metà orizzontalmente, poi con un cucchiaio togliere circa ¾ della polpa: la buccia delle patate deve restare ben protetta da quella restante. Rimetterle sulla gratella.
Alzare la temperatura del forno a 220°C, spennellare l’olio su tutta la “barchetta” (interno ed esterno), distribuire un pizzico di sale dopo aver controllato se necessario assaggiando un pezzettino di polpa; rimettere in forno. Dopo circa 10 minuti girare le patate e lasciar cuocere per altri dieci minuti. Togliere dal forno e lasciar raffreddare.
Unire e mescolare il bacon con il  Cheddar e imbottire le “barchette” con questo ripieno.
Rimettere al forno fin quando il formaggio appare sciolto e inizia a sfrigolare.
Per servire, aggiungere l’erba cipollina tagliata fine e un cucchiaio di panna acida.





* Il Cheddar, che nasce nell’omonimo villaggio del Somerset inglese, è un presidio Slow Food e però solo tre varietà possono fregiarsi della certificazione DOP. Il colore che ormai  lo caratterizza – il giallo – in realtà è determinato dall’aggiunto di annato un colorante estratto dalla Bixa Orellana, pianta amazzonica.  All’origine il Cheddar ha una colorazione simile a quella del Parmigiano, più o meno intensa a seconda della maturazione che non deve superare i 24 mesi e avvenire rigorosamente dentro a un panno di stoffa.



Somerset Apple Cake




400 g mele * – 220 g farina 00 o 0 – 150 g burro
200 g zucchero di canna grezzo
2 uova – 1/2 cucchiaino di cannella Bourbon in polvere
1 bustina lievito vanigliato per dolci –1 cucchiaio di latte


Preriscaldare il forno a 180°C. Imburrare e infarinare una teglia rotonda, diametro 20 cm.
Sbucciare e togliere il torsolo alle mele, tagliarle a cubetti e metterle in una terrina, spolverandole con un paio di cucchiai di zucchero e la cannella. A parte unire il burro (a temperatura ambiente e tagliato a pezzetti) alla farina e al lievito.  Mescolare vigorosamente e ne risulterà un composto granuloso; aggiungere le mele e lo zucchero, conservandone tre/quattro cucchiai per la copertura finale. Mescolare ancora. Aggiungere le uova leggermente battute con il latte lavorando vigorosamente e velocemente; versare l’impasto nella teglia, cospargere con il restante zucchero e mettere in forno per circa 90 minuti; passata un’ora verificare la cottura infilando uno stuzzicadenti nella torta: se uscirà asciutto si potrà spegnere la fiamma, se, al contrario fosse umido e appiccicoso, abbassare la temperatura a 160°C e proseguire la cottura per un altro quarto d’ora. Una volta pronta, lasciar intiepidire la torta nella teglia, quindi trasferirla su una gratella.



Vincent van Gogh, Il cielo stellato, olio su tela, 1889 – Museum of Modern Art, New York


Fonti

e dalla libreria

J.H. Fabre , Il Cielo, Casa Editrice Sonzogno, Milano, 1924

Grazie

giovedì 12 dicembre 2019

Brrrr, che freddo! Proposta: una zuppa. Anzi, tante zuppe.



 
Ci sarà la luna.
Ce ne sta già un po’.
Eccola che pende piena nell’aria.
Ė Dio, probabilmente,
che con un meraviglioso
cucchiaio d’argento
rimesta la zuppa di pesce delle stelle.
Vladimir Majakovskij (1893 – 1930), “Notte di Luna




Ronald Companoca, "El viaje de la luna", 1981 



La zuppa conforta chi è stanco, infreddolito e ha solo voglia di qualcosa di caldo, alla fine di una giornata vissuta a ritmo serrato.  La zuppa rasserena chi ha la fronte aggrottata e regala tranquillità a chi vuole beffare le tensioni. La zuppa è l’incontro di tanti piccoli e grandi “bocconi” che nessuno immaginava potessero stare tanto bene insieme. In pentola: cavolo verza (riccio e sodo!), fagioli, ceci (neri o bianchi), mais (si può conservare anche fresco), lenticchie, porri (ortaggio che può sorprendere anche un gourmet), cipolle, aglio, carote, sedano, patate, zucca... La zuppa, è buona perché è l’esaltazione delle singole bontà. Non avrebbe bisogno di essere arricchita se non con pane rustico tostato e formaggio: dal parmigiano al grana padano, a quello trentino, alla fontina. E però alcune tradizioni locali vedono l’aggiunta di prosciutto crudo (l’osso soprattutto…), costine di maiale, cotenne, trippe. Oppure si punta direttamente al pesce. Ed ecco che la scelta diventa personale e nessuno si sentirà tradito o escluso. Ai vegetariani i puri vegetali, agli onnivori una succulenta opzione che contempla anche le carni mentre agli intolleranti al glutine basterà sostituire il pane comune con quello idoneo per loro. La zuppa è in tavola. E anche fra le stelle, secondo il grande poeta georgiano.










Ricette*





Seupa à la  Vapelenentse
Valle d’Aosta





Questa zuppa di pane ha preso il nome da una piccola valle situata a nord-est di Aosta, che corre lungo il confine svizzero. È la Valpelline, incontaminata, anche perché la sua orografia non ha consentito l’installazione di alcuna stazione sciistica. È tutta  pace e silenzi.
Come per molte altre zuppe, le varianti sono tante, si potrebbe dire infinite, perché nate talvolta dalla creatività e talaltra dalla necessità, come dire dalla mancanza o dall’abbondanza di questo o quell’ingrediente. Per la versione considerata “povera” si usa pane nero o di segale, per quella “ricca” pane bianco. La verza fa parte della ricetta originale eppure altre “derivate” la ignorano. C’è inoltre la cipolla, che dovrebbe essere fatta appassire lentamente in padella ma che, di tanto in tanto, sparisce. Ancora, il burro, sul quale si confrontano quanto meno due scuole di pensiero: versarlo fuso sulla Seupa a termine cottura oppure usarlo per tostare le fette di pane?
Infine, le spezie. Un paio di chiodi di garofano, un pizzico di cannella, una grattatina di noce moscata, a scelta: saranno il tocco magico.

* Le ricette sono tutte per 4/6 persone, se non diversamente specificato





1 litro di brodo di carne - 200 g di fontina d’alpeggio
 500 g di cavolo verza
200 g (circa) di pane raffermo - 50 g di burro – sale e pepe - spezie


Preparare il brodo con un pezzo di carne bovina con l’osso (ottimo il biancostato) accompagnata dalle classiche verdure: carota, sedano, cipolla steccata con due chiodi di garofano e, volendo, anche salvia e porro. Lasciar cuocere per non meno di due ore. Intanto pulire la verza togliendo torsolo e coste dure; lavare accuratamente le foglie, sgocciolarle bene e farle stufare in un tegame, coperto, con parte del burro, fin quando non saranno tenere e leggermente colorite; aggiungere un pizzico di sale. Tagliare il pane a fette alte circa 1 centimetro e  tostarle in forno; affettare la fontina sottile. Esaurite queste operazioni, prendere, a scelta, una teglia oppure cocottes singole e procedere all’assemblaggio: uno strato di pane, uno di verza, uno di fontina, e procedere alternando altri strati fino a esaurimento degli ingredienti, concludendo con la fontina. Versare il brodo ben caldo arrivando a tre quarti del recipiente (non deve coprire la fontina) e passare in forno preriscaldato a 160°C, per circa un’ora. Quando si sarà formata una bella crosticina dorata, servite distribuite sulla zuppa un velo di burro fuso. Servite bollente.



Nota: Per questa zuppa si può anche usare il brodo di verdura. Eventualmente si può sostituire il pane comune con uno rustico senza glutine.






Cisrà – Zuppa di ceci della tradizione piemontese



 Dogliani - Chiesa della Confraternita dei Battuti

Come molte altre zuppe, anche quella “della tradizione piemontese” conta un abbondante numero di ricette dove gli ingredienti di base aumentano o diminuiscono o cambiano a seconda della zona. Quella qui è proposta è la versione di Dogliani, considerata la capitale delle Langhe sud-occidentali e ponte fra la Langa del Barolo e l'Alta Langa. Questa cittadina, in provincia di Cuneo, è ricca di storia, e nota a livello internazionale per ben più di un motivo: il vino Dolcetto, il nome di Luigi Einaudi, la Confraternita dei Battuti con la loro Chiesa, importante esempio del Barocco piemontese e dichiarata monumento nazionale. Luigi Einaudi - che nel 1948 sarebbe diventato il primo Presidente della Repubblica italiana democraticamente eletto - nel 1897, appena ventitreenne, acquistò nel comune di Dogliani la cascina ‘San Giacomo’, un nobile fabbricato settecentesco con una cappella sconsacrata ormai in rovina e quaranta giornate piemontesi di vigna: da questo acquisto nacquero e prosperarono i Poderi Luigi Einaudi che cominciarono a imbottigliare il Dolcetto e a farlo uscire dai confini regionali, dove era relegato.
La Confraternita, invece, è strettamente collegata alla Zuppa: fin dal 1600 a Dogliani confluivano, all’inizio di novembre, molti pellegrini per partecipare alle celebrazioni per il giorno dei morti e, anche, all’ultimo mercato prima del periodo invernale dove avrebbero potuto trovare le provviste che avrebbero traghettato le famiglie fino all’arrivo della primavera. Il freddo, spesso il gelo, che incameravano percorrendo le strade delle Langhe trovava sollievo in quella scodella di zuppa di trippe e ceci, bollente e nutriente, che veniva servita loro proprio dai Confratelli dei Battuti. Il nome “Battuti” deriva inizialmente dalla penitenza della flagellazione che alcuni gruppi fra essi s’imponevano come regola, ma rimane poi anche quando tale usanza cade in disuso.

 Nota: Elemento importante per la buona riuscita della Zuppa è la cottura prolungata a fuoco dolce in una pentola di coccio, che trattiene il calore e lo diffonde uniformemente.




250 g di ceci secchi* – 400 g trippe –1 patata media – 2 carote
2 coste di sedano – 1 cipolla 3 porri * – 2 foglie di salvia
1 spicchio d’aglio – 2 cucchiaini di concentrato di pomodoro
olio extravergine di oliva – pane casereccio per accompagnare




Mettere i ceci in ammollo in abbondante acqua per 24 ore. Mondare e lavare tutte le verdure sotto acqua corrente. Affettare il porro a rondelle sottili, eliminando la parte verde più legnosa; tagliare il sedano e la carota a quadratini piccoli. Scicquare bene le trippe e farle "spurgare" per 10/15 minuti in un tegame, senza alcuna aggiunta di grassi, quindi sciacquare ancora sotto acqua corrente. In una pentola di coccio scaldare un giro d’olio e soffriggervi dolcemente le verdure preparate per circa 10- 15 minuti, mescolando spesso. Unire quindi le trippe e poi la patata, i ceci scolati ed il cavolo a striscioline e lasciare insaporire. Legare le erbe aromatiche con un giro di spago da cucina ed aggiungere alle verdure il bouquet garni. Coprire con abbondante acqua, aggiungere il concentrato di pomodoro e lasciar cuocere a fuoco lento tre ore o più, mescolando di tanto in tanto.
Al termine della cottura i ceci dovranno essere morbidi. Regolare di sale e pepe e servire la zuppa molto calda, accompagnata con fette di pane casereccio leggermente abbrustolite.





* Note: Se volete preparare un piatto speciale, cercate i ceci di Merella, coltivati da oltre un secolo in una zona pianeggiante a breve distanza dal fiume Scrivia, nel territorio comunale di Novi Ligure, in provincia di Alessandria.  Oppure i ceci di Nucetto, in Val Tanaro. Entrambi si autoproclamano "i migliori".....

E, se possibile, non rinunciate ai porri di Cervére, provincia di Cuneo, i migliori al mondo (e non è tanto per dire….). 

Infine, se non gradite le trippe, potete sostituirle con costine di maiale che potranno essere agggiunte a metà cottura degli altri ingredienti.





Zuppa alla pavese
Lombardia


 Arazzo fiammingo su cartoni di Bernard van Orley, "Museo di Capodimonte", Napoli



Torniamo al passato remoto, indietro di quasi 500 anni. Sulla scena europea, due protagonisti-antagonisti, entrambi con grandi mire espansionistiche: Carlo V d’Asburgo, imperatore del Sacro romano impero germanico, re di Spagna, Principe dei Paesi Bassi e Francesco I di Valois, re di Francia.  Carlo V possedeva, fra l’altro l’Italia meridionale mentre Francesco I, per discendenza, aveva ottenuto il Ducato di Milano, strategico per la connessione con i passi alpini e i porti della Liguria. Carlo, l’Imperatore, sognava di creare un impero cristiano universale e, con questo obiettivo, ottenuta l’alleanza di Papa Leone X,  affronta e si scontra con il Re di Francia, sceso in campo in prima persona. È il 1521 quando le truppe di Carlo V hanno la meglio occupando Milano e Genova. Ed è il 24 febbraio 1525 quando Francesco I, con le sue truppe già pesantemente provate da anni di guerra, subisce  a Pavia un’altra pesante sconfitta: a sua madre, Luisa di Savoia, scriverà “Tutto è perduto fuorché l’onore”. Il Re fugge e si rifugia in una cascina a Borgarello – la cascina Repentita - dove chiede di poter mangiare qualcosa di caldo. La povera contadina mette insieme tutto quello che ha: brodo, uova, burro, formaggio e pane raffermo. Ne fa una zuppa che entusiasma e conforta il re di Francia, tanto che una volta tornato in patria ordina ai suoi cuochi di prepararne una simile: la soupe à la pavoise. Era nata una stella, che brilla tuttora, nella gastronomia internazionale.



Il passaggio del monarca è ricordato con una targa applicata su uno dei muri dell’ancora esistente cascina mentre il piatto, osannato all’estero, era caduto nel dimenticatoio proprio nel pavese e solo nel 2018 è tornato alla ribalta come “piatto storico”.
Sotto il profilo culinario, è da notare che alcune fonti raccontano dell’utilizzo di brodo di borragine mentre altre indicano brodo di carne, presumibilmente di gallina, e altre ancora indicano e ritengono il crescione insaporitore indispensabile.




Brodo di borragine o gallina – 2 uova – pane rustico tagliato a fette spesse
 grana padano o parmigiano reggiano grattugiato
  burro q.b. – crescione –  sale e pepe
(per ogni commensale)


La preparazione della zuppa è relativamente semplice: si friggono nel burro due fette di pane (è più probabile che, all’epoca, siano state rosolate nel lardo…) si mettono in una terrina da forno, si coprono con formaggio grattugiato e vi si rompono sopra due uova (uno per fetta), facendo ben attenzione a mantenere il tuorlo intatto. Si aggiunge un pizzico di sale e di pepe. Al momento di servire si aggiunge il brodo
bollente, distribuendolo anche sugli albumi (ma non sul rosso), per farli rapprendere leggermente.
Dopo aver bagnato con il brodo, distribuire sulle uova ancora un poco di formaggio grattugiato e mettere la terrina in forno preriscaldato a 150°C per 5/7 minuti.  Servire bollente.


la Borragine

Nota - Preparare il brodo. Per la borragine, scegliere le foglie più tenere – la pianta, annuale, dà il meglio da settembre a febbraio - sciacquarle in acqua fresca e bollire in acqua leggermente salata. Se si sceglie la carne procedere come d’uso, lessandola unitamente alle verdure classiche, cioè sedano, cipolla, carota, poi, a cottura ultimata, filtrare e mantenere il brodo molto caldo.


Suppa de leituga – Zuppa di lattuga
Liguria



6 lattughe – 4 uova – 4 fette di pane  – 1 cipolla – 1 ciuffo di prezzemolo
15 g di funghi secchi – 2 cucchiai di parmigiano grattugiato –
 2 cucchiai d’olio extra vergine d’oliva – sale q.b.



Pulire accuratamente le lattughe e lessarle, scolarle e tritarle. Tritare la maggiorana. Sciacquare sotto l’acqua corrente i funghi secchi e poi metterli a bagno in acqua tiepida per almeno 15 minuti quindi strizzarli e tritarli assieme al prezzemolo, lavato e asciugato. Rosolare la lattuga in olio e cipolla affettata finemente. Aggiungere i funghi tritati con il prezzemolo e far insaporire. Unire quindi un litro d’acqua e far cuocere per una ventina di minuti.  Sbattere le uova con il parmigiano, la maggiorana e aggiungere un pizzico di sale. Versare nel brodo, mescolando, e far cuocere qualche minuto. Regolare di sale l’intera zuppa. Tostare le fette di pane, disporle nelle fondine o nelle ciotole e versarvi sopra la zuppa ben calda.




Buzzega – Zuppa di legumi del Montefeltro



50 g fagioli borlotti – 50 g fagioli cannellini – 50 g fagioli rossi
 50 g lenticchie –50 g fagioli dell’occhio – 50 g ceci – 1 finocchio – 1 carota  1 cipolla – 2 patate – 200 g pomodorini –
1 spicchio d’aglio – 2,5 l di brodo vegetale o acqua – – 2 foglie alloro
sale e pepe q.b. – olio extravergine d’oliva q.b.


Mettere a bagno in acqua fredda i legumi – escluse le lenticchie – per 24 ore. Terminato l’ammollo, scolare tutti i legumi e sciacquare le lenticchie quindi mettere il tutto in una pentola alta con una foglia d’alloro, coprire con acqua fresca e lessare per un’ora a fuoco dolce. Scolare.  Intanto avrete tagliato a dadini le carote, la cipolla, le patate, il finocchio e avrete sbollentato i pomodorini per togliere la buccia. A questo punto scaldare nella pentola 2 cucchiai d’olio, versarvi le verdure e lasciarle insaporire per una decina di minuti. Aggiungere i legumi, l’altra foglia d‘alloro e coprire con acqua o brodo vegetale, in ogni caso bollente. Si può calcolare che il liquido dovrà essere di circa 2 litri e mezzo. Portare a bollore e lasciar cuocere a fuoco dolce per un tempo valutabile in un’ora e mezza: comunque assaggiare dopo un’oretta per valutare la consistenza dei vari legumi e regolarsi di conseguenza per spegnere quando saranno tutti morbidi. Salare solo verso fine cottura. Il pepe verrà portato in tavola con la zuppa bollente.

  

Annibale Carracci, "Il mangiatore di fagioli"  (1580-1590), Galleria Colonna , Roma





Zuppa di porri
Antica ricetta fiorentina





1 kg di porri – 1/2 litro di brodo vegetale  – 100 g parmigiano reggiano
1 cucchiaio di pinoli – 3 cucchiai di olio extravergine di oliva 
2 cucchiai di  farina bianca – pane abbrustolito q.b.


Pulire e affettare a rondelle sottili i porri dopo aver eliminato la parte verde; accomodare le fettine in un tegame possibilmente di coccio irrorandole con un filo d’olio; avviare la cottura a fuoco moderato. I porri devono appassire lentamente e, se necessario, aggiungere un cucchiaino di acqua. Quando saranno morbidi e leggermente dorati, aggiungere la farina bianca, mescolando per evitare grumi, fino ad assorbimento completo. Versare mezzo litro di brodo caldo e lasciate bollire fin quando i porri non si saranno disfatti naturalmente.
Abbrustolite le fette di pane toscano, metterle in una teglia da forno, distribuirvi sopra i pinoli e la zuppa. Spolverare con parmigiano e gratinare in forno preriscaldato a 180°C per circa 10 minuti.

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La minestra maritata detta Pignatto grasso

Dalla cucina napoletana, la zuppa regina del Natale


Origine spagnola, probabilmente sbarcata a Napoli con l’avvento della dinastia aragonese (presumibilmente nella seconda metà del ‘400) si ritrova anche nei testi sacri dei grandi cuochi a partire dal ‘500: la descrivono il marchese Giovanni Battista Del Tufo, Giovan Battista Crisci, Vincenzo Corrado, il cavalier Ippolito Cavalcanti Duca di Buonvicino… “A’ menesta ‘mmaretata” nella versione del marchese Del Tufo è quella che più si avvicina alla ricetta moderna mentre la proposta del  cavalier Cavalcanti punta sulla semplificazione. Certo è che per prepararla serve tempo in abbondanza sia per la ricerca di carni e verdure sia per la confezione e la cottura. Al tempo del Regno di Napoli il “pignatto” era piatto nazionale, poi fu soppiantato dai maccheroni, arrivati dalla Sicilia. E ora soffre l’abbandono anche per via di quella ricchezza di grassi che i tempi moderni hanno messo al bando. Noi proponiamo la ricetta “tradizionale”*  tratta da un caposaldo della letteratura culinaria napoletana, il manuale di Jeanne Caròla Francesconi.




Verdure

400 g broccoli di foglia – 300 g broccoletti – 800g cicoria e scarolella
450 g cappuccia – 400 g  torzelle

Carni e aromi

1 osso di prosciutto – 200g cotiche salate – 200 g salamino
200 g pezzentelle – 200 g tracchiolelle – 300 g maiale fresco
3 salsicce fresche – 50 g lardo – 100 g caciocavallo secco
 1 pezzetto di peperoncino forte  
1 mazzetto (rosmarino, salvia, alloro, maggiorana, piperna)


Lavare le varie qualità di carne e salame, cotenne comprese, metterle in una pentola con il mazzetto, ricoprire con 4 dita d’acqua non salata e metterle a cuocere a fuoco moderato. Quando il tutto sarà cotto, dopo circa due ore e mezza, togliere dal brodo, tagliare la carne a pezzetti di circa 3-4 centimetri,  salami e cotenne un po’ più grossi, spolpare l’osso di prosciutto (se non fosse ben cotto rimetterlo al fuoco  fino a completa cottura). Riunire in una casseruola quanto tagliato e aggiungere un paio di mestoli di brodo. Coprire e mettere da parte.
Lasciar raffreddare il brodo e quando il grasso sarà affiorato e si sarà compattato, toglierlo con un mestolo forato; rimettere la pentola sul fuoco.
Tuffare tutte le verdure lavate, in acqua a bollore con pochissimo sale, coprire il recipiente e, non appena il bollore avrà ripreso, toglierle dal fuoco, versarle in uno scolapasta per farle sgocciolare, eventualmente schiacciandole leggermente con un mestolo. Finire di cuocerle nel brodo bollente insieme al formaggio a pezzetti e al peperoncino, per una mezzora a calore moderato. Verso fine cottura verificare il sale, aggiungendone se necessario. Riscaldare la carne nel suo brodo e mischiarla alla verdura o mandarla in tavola a parte, lasciando ai commensali di unirne poca o tanta, secondo il proprio gusto.

Note
Verdure  – Il peso indicato è al netto degli scarti.
La Torzella è uno dei più antichi tipi di cavolo al mondo, nato 4000 anni fa nell'area del Mediterraneo e per questa origine è detta anche cavolo greco o torza riccia. Oggi, recuperata dall’agricoltura campana dopo un lungo periodio di abbandono, è una pianta presente soprattutto nella zona dell'Acerrano Nolano, in provincia di Napoli.


Carni
La Pezzentella è una salsiccia forte, povera perché ricavata da secondi e terzi tagli del maiale nonché residui della manifattura di altri salumi, conditi con pepe, peperoncino e vino rosso. È anche detta salsiccia di polmone.
Le Tracchiolelle sono le costine di maiale.
Per il salame, qualunque tipo va bene, anche il cotechino o il salame da pentola.

*A conclusione non può mancare la citazione di una ricetta del Seicento, proposta dall’attore della commedia dell’arte Bartolomeo Zito, detto “lo Tardacino” che spiega chiaramente cosa fosse una ricetta “tradizionale”.
 “Si piglia una pignatta grande, e dentro si mette un buon pezzo di carne di giovenca grassa, indi un cappone imbottito e una gallina casereccia, poi un salsiccione della Costa, quattro capi di salsicce cervellate, un pezzo di cacio nostrano, ossa mastre, spezie quanto bastano, e poi, cotte che siano tutte queste cose, si aggiunga una bella affettata di torsoli e foglie scelte nelle più tenere cime e si lascino bollire soave soave; poi si faccia riposare un pò il tutto, indi si mangi!”




Macco di fave secche
Sicilia

 

500 grammi di fave secche decorticate* – 1 cipolla bianca piccola
 1 carota – 1 costa di sedano – finocchietto selvatico – rosmarino
olio extravergine di oliva – uno spicchio d’aglio in camicia
 sale e pepe q.b.

Sciacquare accuratamente le fave secche e metterle a bagno per 2 ore in acqua fredda. Tagliare a dadini la carota e il sedano e a fettine sottili la cipolla. In una casseruola, soffriggere nell’olio le verdure e l’aglio in camicia poi rimuovere l’aglio e unire le fave secche ben scolate. Rosolare il tutto e coprire con acqua calda. Quando il liquido inizierà a bollire, schiumare, aggiungere finocchietto e rosmarino tritati finemente, mettere un coperchio e fare cuocere a fuoco dolce finché le fave non inizieranno a disfarsi: mescolare spesso, per evitare che le fave si attacchino al fondo, e aggiungere di tanto in tanto acqua bollente affinché il macco non si addensi troppo prima di aver raggiunto la cottura ideale. Controllare è semplice: basta mescolare con un cucchiaio di legno e se le fave si disfano sotto la leggera pressione significa che è arrivata l’ora di mettere a tavola.  Prima di servire, aggiustare di sale, mentre il pepe sarà messo a disposizione dei commensali unitamente ad altro olio d’oliva e a pane rustico tostato.  Sovente in Sicilia si accompagna il macco con ricotta freschissima.




Nota: * Se vi è possibile cercate le fave Cottoia di Modica, che, tra l’altro, sono un presidio Slow Food.  Il termine “cottoia” letteralmente significa “cottura”: per quanto riguarda le fave, la denominazione sta a indicare che il legume è di agevole cottura. Questo vuol anche dire che queste fave non hanno bisogno di ammollo o, se proprio si vuole essere tranquilli, è sufficiente metterle in acqua fresca per un paio d’ore con un ciuffetto di finocchietto selvatico. 
Ricordiamo che normalmente altre varietà di fave hanno invece bisogno di stare nell’acqua per almeno una notte.
Già che ci siamo con le precisazioni lessicali: la parola “macco” è di etimo incerto, forse connesso con il latino volgare “ammaccare”.



Omaggio a Vladimir Majakovskij

 

Antica zuppa di pesce 

dalla Russia




 
1 kg  di Salmone – 4 cucchiai di caviale rosso – 4 patate – 1 cipolla
2 carote – 5 cetrioli in salamoia – 200 gr di salamoia – ½ limone
4 foglie di alloro –1 pizzico di dragoncello – 1 bustina di zafferano
1 litro e mezzo di acqua – sale e pepe q.b.



In una casseruola capiente versare acqua fredda e mettere a bollire. Tagliare le patate, la cipolla e le carote a cubetti e unirle all’acqua  bollente; cuocere per una decina di minuti.
Tagliare a cubetti anche i cetrioli, aggiungere una tazza della loro salamoia al brodo e lasciar bollire per un’altra decina di minuti.
Aggiungere il salmone tagliato a pezzi, compresa la coda; cuocere a fuoco dolce per 7 minuti.
Assaggiare la zuppa per regolare di sale, sciogliere lo zafferano in una tazzina di acqua tiepida e versarlo, insaporire con il dragoncello, le foglie d’alloro e il succo del limone.
Spegnere il fuoco e lasciar riposare la zuppa per circa 30 minuti.
Al momento di servire, arricchire i singoli piatti con un bel cucchiaino di caviale rosso, appoggiato sui tranci di salmone.







Fonti

www.dossier.netwww.slowfood.it

 


... e dalla libreria


Carlo Steiner, “Il ghiottone lombardo”, Bramante Editrice, 1964

Emanuela Gentile e Federica Isoppo, “ Cucina ligure
Ed. Alpicella Cooperativa


Jeanne Caròla Francesconi, “La cucina napoletana
Grimaldi & C. Editori, 2010

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Vladimir Majakovskij, “Poesie”, Newton Compton, 1996