Ricette

sabato 6 giugno 2015

Che bello mangiare per strada… le panelle! Con Mafalda e crocchè.




 
Questa storia ha inizio con gli Arabi che, intorno all’anno Mille, conquistarono la maggiore isola del Mediterraneo, bellissima, rigogliosa, pescosa. La Sicilia. Lì, girando in giro, si resero conto che cresceva pure con grande abbondanza una pianta erbacea  i cui semi, essiccati e macinati, avrebbero potuto rappresentare un’ottima fonte di alimentazione. Esperti com’erano di farine, si diedero da fare per trarne un “prodotto” gradevolmente commestibile. E ovviamente qui scatta la leggenda. Perché, si narra, in realtà i primi tentativi di miscela acqua-farina di ceci sarebbero risultati fallimentari. E però un  bel giorno un povero diavolo, affamato, rubò un po’ di quell’impasto immangiabile e se lo portò a casa dove, dopo un’aggiunta di qua e una di là (forse sale marino ed erbe aromatiche), ne fece tante fettine sottili e le immerse nell’olio bollente per cuocerle. Erano nate le panelle: saporite, nutrienti, poco costose.  Arrivò dapprima la popolarità e, più recentemente, il successo gastronomico, sempre in crescendo. Un successo nato e cresciuto a Palermo. Un successo che ha conquistato il mondo, con interessanti evoluzioni o, se vogliamo, arricchimenti. 






Con la scoperta delle Americhe, infatti, arrivò anche in Italia la patata: altro alimento capace di riempire la pancia a poco prezzo ma con tanta soddisfazione. Patata bollita, schiacciata, arrotolata e fritta. Ecco in tavola le crocchette, dette crocchè anzi “cazzilli”  per via di quella loro forma… Il tutto, ovviamente, accompagnato dal pane. Anzi, contenuto nel pane. E, con il passare del tempo, anzi dei secoli, si arrivò alla pagnotta che divenne il classico dei classici: la Mafalda. L’involucro  (se così si può chiamare..) è un tipico e tradizionale pane siciliano, che venne chiamato “Mafalda”,  probabilmente in onore della  principessa di Savoia, morta tragicamente nel 1944 in un campo di concentramento  nazista.   

 

Riassumendo: Pane di grano duro rimacinato – la citata Mafalda – con panelle  e crocchè. Il pranzo è servito. Non proprio dietetico. E infatti in tempi recenti  qualche penalizzazione c’è stata.




Ecco  come ricorda il percorso delle panelle Daniele Billitteri, giornalista e scrittore, palermitano doc. E’ una bella pagina di storia.




In principio era il pane e panelle. Simbiosi poi tristemente spezzata dall’avvento dei tempi moderni quando la panella cominciò a circolare da sola, trasferita a viva forza dai luoghi di produzione alle case ormai piccolo borghesi dei palermitani. Ma all’inizio la regola era: mai panelle senza pane. E l’incontro doveva avvenire nei luoghi deputati, cioè il panellaro, al cui cospetto prevalentemente si svolgeva il rito del consumo. Palermo ne era piena: posti fissi, solidi muri, antri un po’ bui, odore di olio rifritto e di cereali bolliti. I carrettini, le “lape” (moto Ape Piaggio), i panellari vaganti appartengono a tempi più recenti.
La panelleria si giudicava con il parametro della pulizia. Era “l’affaccio”(la bella disposizione dei prodotti) che contava. Sul piano inclinato forato, che funzionava come gocciolatoio dell’olio superfluo, il panellaro riversava le panelle ancora gonfie di vapore, segno di recentissima frittura,  poi riempiva le pagnotte o i mezzi pani (preferibilmente mafalde – tipica forma di pane palermitano) e poi serviva. Per accompagnare la pietanza, in ghiacciaia c’erano le gassose Partanna (famosa, ma non più esistente, fabbrica di bevande) nelle due varianti: normale e al caffè.
Il lavoro del panellaro cominciava il mattino presto e certe volte nel pomeriggio precedente. Cuoceva la farina di ceci come la polenta, un continuo rimestare con un paiolo da zattera, nel suo antro buio davanti alla pentola fumante, magari su un fuoco a legna…. Poi metteva a raffreddare l’impasto coperto con una mappina (strofinaccio) e solo quando diventava maneggiabile, per il calore non eccessivo, cominciava a lavorare le panelle; ma non bisognava perdere l’attimo fuggente, perché se si aspettava troppo, l’impasto induriva e diventava buono, tuttalpiù,  per una mesta produzione di rascature (è la rimanenza della farina di ceci cotta indurita, non più spalmabile), roba da morti di fame,l’articolo più infimo e il meno costoso di tutta la panelleria, da chiedere sottovoce, giusto per perversione alimentare….”





Panellari casalinghi ci si può improvvisare? Sembra di sì secondo Donna Albuccia che ci regala la sua ricetta.


Panelle

Suggerimento: per un primo esperimento puntare su dose moderata, tanto per vedere l’effetto che fa…

400 g di farina di ceci – 1,25 l di acqua - sale e pepe - prezzemolo tritato
olio di semi d’arachide per la frittura




In una casseruola di dimensioni adeguate sciogliere la farina di ceci nell’acqua fredda, moderatamente salata, facendo molta attenzione a che non si formino grumi; porre la casseruola su fuoco dolce e portare a ebollizione continuando a mescolare con la paletta di legno, sempre nello stesso senso, per ottenere una pasta soffice e liscia. Verso fine cottura –saranno passati circa 10/15 minuti -  aggiungere il prezzemolo tritato finemente e una macinata di pepe.. Quando la pasta si stacca dalla pentola, versarla su una spianatoia precedentemente coperta con carta forno oleata ad evitare  che si appiccichi al mattarello che sarà usato per spianarla a un’altezza uniforme, inferiore ai 5 mm. Appena la pasta raffredda, tagliarla a rombi di 3/4 cm di lato. Questi vanno fritti in olio bollente fino a doratura.


Nota: per formare le panelle si usa anche prendere la latta dell’olio di semi, togliendo con un apriscatole base e “cappello” (in pratica di due cerchi). Riempire questo cilindro, sulle cui pareti resiste un velo di olio di semi, con la pasta delle panelle, pressando bene. Lasciar raffreddare e poi spingere la pasta verso l’esterno, intera, oppure affettandola man mano.


Crocchè ovvero …cazzilli

1 kg patate vecchie a pasta bianca - Maizena q.b. – sale e pepe
prezzemolo tritato – olio di semi d’arachide per la frittura




Patate ben lavate e con buccia in acqua fredda salata. Portare a bollore e controllare la cottura con una forchetta o spiedino. Sbucciare le patate quando sono ancora ben calde e passarle immediatamente allo schiacciapatate. Assaggiare e, se necessario, aggiustare di sale, dare una macinata di pepe e unire il prezzemolo tritato finemente. Aggiungere infine la Maizena. Lavorare il tutto con cura fino a ottenere un impasto il più possibile amalgamato e quindi formare dei piccoli cilindri della larghezza e lunghezza di un dito medio.
Per quanto riguarda la fase di frittura, in assenza di uovo c’è il rischio che le crocchette si disintegrino nell’olio. Per evitare questo inconveniente, è utile usare la classica padella di ferro con un’adeguata quantità di olio che verrà portato a 180°C, quindi ben bollente, in modo che sfrigoli ma non abbia raggiunto il punto di fumo. E’ inoltre importante che le crocchette vadano in immersione, non siano toccate ma, se necessario, siano rivoltate  delicatamente con l’aiuto di bacchette di legno.  Infine, non affastellarle nel tegame ma limitarsi a friggerne tre o quattro per volta. Posare su carta assorbente.
Nota - Se, nonostante tutti gli accorgimenti, le prime crocchette andassero  in briciole o diventassero troppo molli avendo assorbito l’olio, si può adottare un altro metodo, di tradizione nella Sicilia orientale: si passano nel bianco d’uovo battuto e poi nel pangrattato. Questo risolverà tutti i problemi.

Conclusione

Se i vostri tentativi di fare concorrenza ai panellari avesse successo, fate un passo in più: cercate le Mafalde, magari con la giuggiulena (semi di sesamo!) e riempitele con tutto il ben di dio che avete cucinato. Poi andatevene a passeggio addentando il ricco panino. Farete invidia al mondo che vi osserva e vi circonda.




Grazie a

  Il brano di Daniele Billitteri è tratto dal libro  Sicilia in cucina: gastronomia da marciapiede”, Pietro Vittorietti Edizioni, 2002

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