Ricette

giovedì 28 novembre 2013

Cavoli, che buoni!


“Lungo il viale deserto, nel profondo silenzio della notte, i carri degli ortolani, diretti verso Parigi, percuotevano con l’eco dei loro monotoni scossoni, a destra e a sinistra, le facciate delle case immerse nel sonno dietro i filari confusi degli olmi. Un carro di cavoli e un altro di piselli si erano riuniti sul ponte di Neully ad otto carri di rape e di carote calati da Nanterre; ed i cavalli procedevano a testa bassa, con andatura pigra e uguale rallentata dalla fatica della salita. Su in alto, sdraiati bocconi, sul carico dei legumi, sonnecchiavano i carrettieri coi loro mantelli a righe nere e grigie, le redini arrotolate ai polsi”.

Emile Zola,  Le ventre  de Paris (1873)


Cavoli!                      
 

 


Si contano sulle dita di una mano gli ortaggi amati e odiati come i cavoli e questo sentire si riflette nei modi di dire di antica memoria.  A un "cavoli, che bello!" si contrappone "ma che cavolo dici?" Non c'è via di mezzo. Particolarmente per il cavolo verza. Eppure in quel globo verde e rugoso  si celano  proprietà straordinarie, già note ai tempi dell’Impero romano: oltre ad essere usata per curare un gran numero di malattie,  la verza veniva consumata cruda, prima dei banchetti, per aiutare l’organismo ad assorbire meglio l’alcol. E anche dopo, per smaltire i fumi… Per i greci, la “brassica oleracea” era addirittura considerata sacra. Il suo percorso di successi è proseguito nel tempo, lasciando importanti testimonianze.  Note quelle del capitano della reale marina inglese, James Cook, che, nel 1700, circumnavigò il globo per ben tre volte, scoprendo terre sconosciute. Nei suoi diari (imperdibili) scrive che, nel suo navigare, dell’equipaggio di 118 uomini non ne perse neppure uno poiché faceva mangiare loro cavoli cotti e crudi per tenere distante lo scorbuto, un pericolo ben noto alle popolazioni marinare la cui alimentazione era forzatamente povera di vitamine e sali minerali. Non solo, durante una tempesta 40 dei suoi uomini si  ferirono gravemente ma furono salvati dagli impiastri di cavolo che il medico di bordo impose sulle ferite, secondo una ricetta di duemila anni prima, firmata da Marco Porcio Catone, detto il Censore.

Cavoli!  Piccolo elenco delle proprietà. Sali minerali, in particolare potassio, vitamina C, acido folico,  ferro, fibre…. Quanto alle virtù, potremmo dire che è una panacea per tutti i mali. Fra l’altro, malattie respiratorie, dolori articolari, malattie dermatologiche e… fertilità. Nel secolo scorso, in Francia, il mattino dopo le nozze, agli sposi veniva servita una scodella di zuppa di cavoli per favorire il concepimento.  D’altra parte, non si dice forse che i bambini nascono sotto i cavoli?

Per tutti questi motivi vi propongo una ricetta che potrebbe conciliare sostenitori e detrattori della verza. La propongo perché nei giorni scorsi ho preparato, per un po’ di amici, un trionfale bollito misto: è piaciuto, molto, e però sulla quantità non ho potuto evitare gli avanzi. Recupero immediato e inevitabile: polpette. Pregiate.  A questo punto riesco a mettere tutti d'accordo. Perché le polpette possono essere cucinate "nature",  dorandole velocemente  in olio e burro (dopo averle rotolate nel pangrattato), oppure possono venir rosolate dopo ssere state rivestite con una brillante camicia verde, il che vuol dire avvolte in una foglia di verza.



La ricetta


Polpette in camicia di verza


Dosi per 4/6 persone

(una ventina di polpette)



500 g carne lessa

150 g prosciutto cotto

100 g mortadella di Bologna

2 uova

100 g parmigiano reggiano

1 patata bollita
1 mazzetto di prezzemolo

olio extravergine di oliva e burro chiarificato, q.b.

noce moscata, sale e pepe q.b.



Macinare la carne nel tritacarne insieme al prosciutto e alla mortadella, aggiungere il parmigiano grattugiato, la patata bollita e schiacciata, le uova, una grattata di noce moscata, il prezzemolo (lavato, asciugato e tritato).  Mescolare tutti gli ingredienti, lavorandoli  bene, preferibilmente con le mani. Assaggiare, regolare di sale, aggiungere del pepe. Mondare la verza riservando  una decina di foglie belle e sane. Se necessario staccare con un coltellino affilato la costa centrale. Lavarle e scottarle in acqua bollente e salata: per evitare che si spacchino, usare una pentola larga e metterne non più di tre per volta. Toglierle con un mestolo forato e stenderle su un canovaccio fino a raffreddamento. A questo punto, se le foglie sono molto grandi dividerle in due. Se piccole, ovviamente, usarle intere. Prendere  un po’ di impasto – più o meno della dimensione di un uovo piccolo - porlo al centro della foglia di verza e chiudere quest’ultima come fosse un pacchettino. Per  mantenerla ben chiusa, usare uno spago da cucina o del filo di cotone, girato più di una volta. In un tegame fondere olio e burro,  lasciar sfrigolare un poco, mettere gli involtini e  far dorare prima da una parte e poi dall’altra. Togliere dal fuoco quando rosolati e asciugare con carta apposita. Servire con  insalatina fresca a parte.

Piccoli consigli utili (forse)

 

-  Vere e proprie proprietà terapeutiche, quelle dei cavoli, nelle varie declinazioni. Ciò significa, anche,  avere controindicazioni alla loro assunzione. Ad esempio, essendo ricchi di vitamina K possono inibire l'effetto anticoagulante di alcuni medicamenti specifici. Così possono interferire con il metabolismo dello iodio a livello tiroideo. Ma attenzione! Si parla di consistenti assunzioni di verze e assimilati. Non certo di piccole porzioni...

- le foglie esterne della verza sono ottime: non buttatele ma usatele magari per una buona zuppa, tagliate a listarelle.

- nella ricetta è indicata l'aggiunta di pepe: meglio evitarlo se le polpette saranno servite anche ai bambini.
- come già segnalato in altre ricette, se si usa il burro per friggere, meglio usare quello chiarificato che ha  un punto di fumo molto alto.

lunedì 25 novembre 2013

Porpetton de faxolin


In Liguria, dal sacro al profano, come si usa dire. Ovvero, dopo aver lasciato spazio alla lirica di Edoardo Sanguineti, un modo di rendere omaggio anche alla regione che gli ha dato i natali è quello di proporvi una ricetta di sicuro successo, un passepartout nel senso che di solito piace agli adulti come ai bambini e può essere  sia antipasto sia primo sia contorno. E’ un piatto vegetariano. Si può chiedere di più?

Nota: specialmente per Cristina. Conti.

La ricetta


Porpetton de faxolin

(Polpettone di fagiolini)

Dosi per 6 persone

1kg di fagiolini (cornetti)

800 g di patate farinose

15/20 g di funghi secchi

4 uova

4 cucchiai (da minestra) di parmigiano reggiano grattugiato

olio extra vergine di oliva qb

1 cipolla di media grandezza
origano o maggiorana

sale e pepe

pangrattato



Mettete in ammollo i funghi secchi. Spuntate i cornetti, cuoceteli buttandoli in acqua bollente leggermente salata.  Lavate accuratamente le patate e lessatele con la buccia, mettendole in pentola in acqua fredda anche questa leggermente salata. Appena pronti i fagiolini, passateli nel  passaverdure quindi aggiungete le patate bollite e  schiacciate con un passapatate. In un tegame mettete quattro cucchiai di  olio di oliva e un battuto di cipolla  che inizierete a soffriggere; quando la cipolla sarà appassita, aggiungete i funghi tritati e  un paio di  pizzichi abbondanti di origano o maggioranza (a piacere). Lasciate rosolare qualche minuto e poi aggiungete fagiolini e patate, che avrete opportunamente amalgamato.  Dopo una decina di minuti spegnete il fuoco e fate intiepidire. A questo punto unite quattro uova e il parmigiano reggiano grattugiato. Mescolate accuratamente badando che le uova siano ben distribuite. Aggiustate di sale e  (se lo gradite) unite un po’ di pepe.  Ora l’impasto dovrebbe essere sufficientemente asciutto: nel caso vi sembrasse  troppo morbido, aggiungete del pangrattato secondo necessità.  Imburrate una teglia rivestendola con il pane grattugiato e stendetevi  il composto regolando lo spessore a non più di 3 cm. Livellate con una spatola  quindi “strisciatelo” con i rebbi di una forchetta. Setacciatevi sopra ancora del pangrattato unito a un po’ di parmigiano e origano o maggiorana. Irrorate la superficie con un filo sottile di olio. Infornate a 180°C per 40/45 minuti, La superficie deve essere dorata e leggermente croccante (ma evitate il grill che farebbe annerire il polpettone).



Piccoli consigli utili (forse)


- Maggiorana o origano? Io scelgo l’origano, perché più aromatico e meno dolciastro. Va detto che sull’argomento (ovviamente) la Liguria è spaccata in due, quindi scegliete serenamente.

- Nel polpettone c’è chi prevede anche la quagliata – prescinseua - , formaggio prodotto nell’entroterra ligure, usato nel ripieno della maggior parte delle torte salate. Ha una consistenza da semiliquida a semisolida e un sapore acidognolo.  Si trova con una certa difficoltà.  Non è il caso di disperarsi (ma io non sono ligure...)

- Le patate devono rigorosamente essere cotte con la buccia a evitare che assorbano acqua, che poi sarebbe rilasciata nell’impasto. Se non disponete del classico passapatate con i buchetti, schiacciate bene con la forchetta ma non usate il passaverdure che rende le patate collose.

- I fagiolini possono anche essere sminuzzati con un piccolo robot ma attenzione(!) non devono diventare poltiglia, anzi devono conservare un po’ di “ruvidezza” e consistenza.
- I funghi non sono indispensabili ma aggiungono quel certo non-so-che.




Ballata delle donne



Oggi è la giornata mondiale contro la violenza alle donne. Ho pensato di regalare a tutte noi (a tutti noi, vorrei dire) questi versi di Edoardo Sanguineti, poeta e scrittore ligure, esponente di punta del Gruppo ’63, protagonista del dibattito culturale del Novecento in Italia.

Ballata delle donne


Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,

poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,

femmina penso, se penso una gioia:

pensarci il maschio, ci penso la noia.

Quando ci penso, che il tempo è venuto,

la partigiana che qui ha combattuto,

quella colpita, ferita una volta,

e quella morta, che abbiamo sepolta,

femmina penso, se penso la pace:

pensarci il maschio, pensare non piace.
 
Quando ci penso, che il tempo ritorna,

che arriva il giorno che il giorno raggiorna,

penso che è culla una pancia di donna,

e casa è pancia che tiene una gonna,

e pancia è cassa, che viene al finire,

che arriva il giorno che si va a dormire.

Perché la donna non è cielo, è terra

carne di terra che non vuole guerra:

è questa terra, che io fui seminato,

vita ho vissuto che dentro ho piantato,

qui cerco il caldo che il cuore ci sente,

la lunga notte che divento niente.

Femmina penso, se penso l’umano

la mia compagna, ti prendo per mano.



Edoardo Sanguineti
(Genova 1930 - 2010)

venerdì 22 novembre 2013

Pasta chi vruocculi arriminati... la sicilianità s'impone....


Ricevo da Alba, cuoca sospesa tra Lombardia e Sicilia per imprescindibili, ovvero amorosi, legami…….

“Cara amica, mi hai  fatto tornare bambina con la cutelèta. Il ricordo mi ha portato a risentire il sapore di nocciola della carne fritta nel burro. Come puoi immaginare, in questa famiglia a forte impronta arabo-normanna, il burro non ha vita facile. Tuttavia non tutto è negativo: l’uso dei prodotti dell’orto, non solo come contorni ma come ingredienti determinanti soprattutto dei primi piatti, è una fantastica risorsa che consente di utilizzare i prodotti di stagione  e, come ben sai, in questo caso l’olio extravergine di oliva regna sovrano, come nella ricetta che ti unisco”.

A me piace molto questa sicilianità, me la sento affine. La Sicilia è una terra meravigliosa che ci ha regalato prodotti straordinari, una cucina ricca di contenuti e di fantasia e pagine di letteratura che sono e resteranno nel tempo.

“L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava, non era che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le filettature  di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroni corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio”.

“Il Gattopardo”, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 12° Duca di Palma, 11° Principe di Lampedusa, Barone di Montechiaro e della Torretta….

Un grande scrittore che scrisse un solo romanzo, Il Gattopardo, appunto, pubblicato postumo nel 1958, un anno dopo la sua morte. E’ pura, alta letteratura, e storia degli uomini, quindi politica, quindi dell’Italia. E riguarda tutti noi, per come siamo stati, per come siamo.  Nel 1959 il romanzo ebbe il Premio Strega,  nel 1963 Luchino Visconti ne realizzò un film che  riesco solo a definire come bellissimo e appassionante.

Il libro è da (ri)leggere, il film da (ri)vedere.



 

La ricetta 

(di Alba)

 


Pasta chi vruocculi arriminati a modo mio

Dosi per 4 persone

400 g di pasta formato tortiglioni

1 cavolfiore bianco da 1 kg (e anche più)

1 manciata  di uvetta passita

1 manciata di pinoli

1 grosso spicchio d’aglio

4 cucchiai colmi di parmigiano reggiano

olio extravergine di oliva

peperoncino

sale quanto basta



Innanzitutto mettere in ammollo nel vino bianco secco l’uvetta passita. Mondare il cavolfiore eliminando le foglie più esterne e dure. Dividerlo in cimette. che saranno lavate e asciugate accuratamente. In un tegame (che possa poi andare in forno) far rosolare l’aglio schiacciato in abbondante olio  e  toglierlo (l’aglio, ovviamente) quando sarà leggermente colorito. Aggiungere allora le cimette di cavolfiore con le foglie più tenere (e anche il cuore del torsolo tagliato a pezzetti), far rosolare a fuoco vivace, salare,  coprire con un coperchio e far stufare a fiamma bassa. Se necessario, cioè se il tutto asciugasse troppo, aggiungere un poco d’acqua. Strizzare le uvette e metterle in padella, unitamente ai pinoli. Quando le cimette del cavolfiore si saranno sfaldate e il torsolo sarà morbido, aggiungere il peperoncino e arriminare (cioè mescolare). Cuocere a parte i tortiglioni, buttarli nella stessa padella, spolverare con metà formaggio grattugiato e arriminare nuovamente. A questo punto, se il tegame usato può andare in forno, si  distribuirà sulla pasta il restate parmigiano e si metterà in forno a gratinare. Se invece il tegame non è idoneo, prima di mettere il parmigiano,  travasare in una teglia e quindi infornare (con formaggio aggiunto).



Piccoli consigli utili (forse)


-  Quando si deve friggere in olio bollente,  fare molta attenzione agl i schizzi, normalmente prodotti da una presenza d’acqua  nell’ingrediente che viene immerso. Quindi, se possibile, asciugare sempre accuratamente l’ingrediente stesso (ad esempio la verdura) e comunque munirsi di un paraschizzi (si trova in tutti i supermercati o casalinghi).

- Il parmigiano reggiano può essere diviso 50/50 con del pecorino, se si preferisce una preparazione più piccantina.

- Quanto al peperoncino, personalmente tendo a scegliere  le bacche intere che, però aggiungo all’olio fin dall’inizio.

- Avverte Alba: “Questo piatto ha numerose versioni. Siate creative e personalizzatelo. Sarà comunque esaltante”.




mercoledì 20 novembre 2013

Una chicca dolce per il caffè


Voglia di chiudere il pasto con un “minimo” di dolcezza? Voglia di accompagnare il caffè con “qualcosa” di buono?  Ecco una chicca che si prepara in dieci minuti. Volete provare?

La ricetta


Nocciole al caramello 

Dosi per 4/6 persone
(ma … sono come le ciliegie, dipende da quante se ne mangiano a testa…)

200 g zucchero semolato
50 g  circa  di acqua
260 g di nocciole
2 pizzichi di sale grosso “fior di sale” o  "rosso delle Hawai"

In  un pentolino o padellina  (20/22 cm, non importa l’altezza ma la larghezza) mettete zucchero e acqua, poneteli sul fuoco e, senza mai mescolare, lasciate sciogliere ben bene lo zucchero stesso, che sarà pronto a 121°C.  Se non avete a disposizione l’apposito termometro da cucina, potete cercare di determinare la temperatura con questa tecnica empirica: raccogliete, con una forchetta, un po’ di zucchero liquefatto, soffiate attraverso i rebbi e , se si formeranno delle bolle (come quelle di sapone) sarà  il momento di  versare le nocciole nello zucchero.  Alzate la temperatura a 200°C  e, questa volta, tenete mescolato. Quando il caramello sarà dorato e le nocciole ben avvolte, spegnete il fuoco, versate il tutto su un piano di marmo – o un  foglio di carta da forno -  cosparso di granelli di sale. Fate rotolare un poco le nocciole cercando di separare l’una dall’altra e lasciate raffreddare.  Il gioco è fatto!

Piccoli consigli utili (forse)

-    Ho citato il termometro da cucina.  Credo che esso sia un aiuto validissimo per un gran numero di preparazioni, ivi compresa la cottura delle carni. Certo, un po’ di esperienza consente di farne a meno…
-     Le nocciole resteranno comunque un po’ attaccate l’una all’altra ma non è grave: le dividerete una volta raffreddate oppure potrete lasciare che si formino dei croccantini.
-   Per quanto riguarda la  pulizia del materiale di cottura, non preoccupatevi: il caramello si scioglie e se ne va semplicemente con l'acqua calda.
-     Per la prima volta, potreste provare questa preparazione dimezzando le dosi.
 Buon divertimento!

martedì 19 novembre 2013

E ora la.... milanese!

Premessa


Costoletta, alla milanese. Mi sento titolata a parlarne perché sono una milanese doc, una lombarda doc e, se proprio vogliamo, ho pure una vena di sangue austriaco da parte di madre (per mettere a tacere chi sostiene che l’origine del piatto sia austriaca…). Spero che queste credenziali siano sufficienti.
Allora, comincerò con il  dire che la versione “orecchio d’elefante”, molto gettonata negli ultimi anni,  nulla ha a che spartire con la “cutelèta” (si pronuncia con la prima “e” stretta e la seconda [è] aperta a dismisura…).  Perché  la carne per ottenere “l’orecchio d’elefante”  è spiaccicata sottilissima e impanata molto per darle corpo. Esattamente il contrario di quanto prevede il “protocollo” della ricetta milanese.

La ricetta 


Partiamo dalla carne: rigorosamente di vitello. La parte è quella della lombata - parte nobile - tagliata lungo le costole in modo da avere l’osso, detto “manico”, con una bella porzione di  carne attaccata.  L’altezza è esattamente quella dell’osso. 


Preparazione: la costoletta sarà battuta leggermente (insisto sul leggermente) con il batticarne classico – non certo quello chiodato! - più che altro per livellarla, avendo cura di proteggerla con un foglio di carta oleata, al fine di evitare che le fibre siano  spezzate. Poi si procede a togliere tutte le eventuali pellicine laterali e a intaccare il bordo in due o tre parti, con un coltello ben affilato. Quest’ operazione serve ad impedire che la carne si arricci durante la cottura. Si dovrà anche staccare un trattino di carne dall'osso per lasciare in evidenza il manico e consentie una cottura più uniforme.A parte saranno battute due uova nelle quali verranno passate le costolette. Queste saranno quindi rapidamente impanate con pangrattato, che verrà pressato molto accuratamente affinché diventi quasi un tutt’uno con la  “cutelèta” .


Cottura: mettere in una padella antiaderente (o di alluminio) una bella porzione di burro chiarificato; quando sfrigolerà allegramente dovrà ricevere la costoletta che verrà cotta circa due minuti o due minuti e mezzo per ogni lato. Quindi la si toglierà dal grasso e la si asciugherà accuratamente con carta assorbente. 


Come presentarla.  Il piatto dovrebbe essere così: grande, in modo che la cotoletta occupi solo la parte centrale;  bianco affinché  il colore dorato della carne venga messo in risalto. Accanto alla costoletta solo due o tre fette di limone, tagliate sottili e “girate” a formare un’onda. Un contorno di insalatina verde mista sarà servita a parte.   Dimenticavo: il manico può essere rivestito con una strisciolina di carta bianca sfrangiata o con carta alluminio. Elegante e pratico per essere… impugnato!

Piccoli consigli utili (forse)

 - Il burro chiarificato, che si trova agevolmente nei supermercati, dovrebbe essere usato per tutte le fritture. Vediamo perché. Il burro "normale" è formato da un 82% di materia grassa, il restante essendo caseina e acqua. Il processo di chiarificazione elimina sia la caseina (quindi anche il lattosio) sia l'acqua. Questo  fa sì che, in cottura,  il punto di fumo - a 130°C nel burro comune - diventi molto più elevato con grandi vantaggi sulla qualità della cottura stessa  e sulla salute: ricordiamo che quando il burro inizia a bruciare produce sostanze dannose per l'organismo.

lunedì 18 novembre 2013

Il Cuoco Galante e la costoletta


... “Nettate da nervi le Coste del Vitello, ed ingrassate bene con butirro, si metteranno a cuocere in una tortiera sopra al fuoco lento;  quando saranno mezze cotte, si tireranno indietro per farle freddare. Freddate  si bagnano nell’uova sbattute, e s’involtano nel parmigiano e pane grattato, servendole fritte in strutto con prezzemolo fritto intorno”.  "Il cuoco galante" -  Opera meccanica dell’Oritano Vincenzo Corrado – In Napoli 1778 , Nella Stamperia Raimondiana.
In questo passaggio di un capitolo più ampio, denominato “Delle Coste del Vitello”,  io ho immaginato l’antenato della cotoletta, anzi costoletta, alla milanese.  Naturalmente non sarà così e però…..
"Il cuoco galante" non è solo un libro di ricette straordinario, è un libro di storia e cultura del  cibo e dei pranzi  del Principe nella Napoli degli splendori (e delle miserie)  della seconda metà del Settecento. 
Vincenzo Corrado, che definire cuoco è davvero improprio, era Oritano, quindi nato a Oria (nel Brindisino) il 29 marzo del 1738.  Orfano in giovane età, divenne paggio alla corte di Don Michele Imperiali - Principe di Modena e Francavilla Fontana, Marchese di Oria e gentiluomo di camera  di Sua Maestà il Re delle Due Sicilie – che lo condusse a Napoli. Divenuto maggiorenne entrò a far parte  della Congregazione dei Padri Celestini nel Convento di Oria. Al termine di un anno di noviziato fu chiamato dal Superiore Generale nella residenza  napoletana. E diventò uomo di vasta cultura, avendo studiato  ed essendosi specializzato in matematica, astronomia, filosofia. Ma non prese mai i voti. Restò a Napoli per cinquant’anni insegnando francese e spagnolo ai rampolli delle famiglie aristocratiche. E contemporaneamente scrisse diverse opere  che gli diedero la notorietà. Oltre al "Cuoco galante",  c'è una sorprendente opera di cucina vegetariana “Del cibo pitagorico ovvero Erbaceo per uso de’ nobili e de’ Letterati”, un "Trattato delle patate",  “La manovra della cioccolata e del caffè”. 
Belle frequentazioni, dunque, a partire dal “suo” Principe, considerato il Lucullo partenopeo, che lo fece conoscere in tutta Europa. Infatti,  molti illustri personaggi che passavano da Napoli  - uomini di cultura e di rango - venivano invitati alla sua mensa per godere delle prelibatezze che il “Cuoco Galante” riusciva ad immaginare e allestire.  In realtà Vincenzo Corradi era molto più di un cuoco, era  “Capo dei servizi di bocca”  e aveva ai suoi comandi un  esercito di cui facevano parte un maestro di casa, un maestro di cucina, un maestro di scalco, un maestro ripostiere (per i raffinatissimi allestimenti scenografici e le sontuose decorazioni delle tavole). E ancora, una schiera di cuochi  super specializzati (dai fritti alle insalate) con seguito di sguatteri e serventi.
Così  disse Vincenzo Corrado del suo lavoro: “L’abbondanza, la varietà, la delicatezza delle vivande , la splendidezza e la sontuosità delle tavole richiedevano una schiera di uomini d’arte, saggi e probi”
(Fonte News di Carpe Diem Oria.it  - www.carpediemoria.it)

“Il cuoco Galante” è stato pubblicato in edizione moderna dall’Editore Forni
“Del cibo pitagorico ovvero Erbaceo per uso de’ nobili e letterati” è stato pubblicato dall’Editore Donzelli (www.donzelli.it)




sabato 16 novembre 2013

Week-end dolce. Con la torta di mele



Fine settimana all'insegna della corsa, normalmente. Il tentativo è quello di recuperare, in due giorni, tutto quanto è stato accantonato nei cinque giorni precedenti... (a me non riesce quasi mai). E però, ora che l'autunno è arrivato, spunta la voglia di casa, voglia di chiudere fuori della porta fastidi e irritazioni per ritrovare un po’ d’ intimità, con noi stessi innanzitutto e quindi con chi ci sta intorno o ci cerca. Per questo c'è una soluzione: mettersi in cucina e preparare un primo, una pietanza o un dolce.  E' un vero e proprio toccasana. Infatti,  il solo pensare di “creare” qualcosa che dà piacere, assorbe tutte le energie negative, liberando un senso di benessere. Per quanto mi riguarda questo è tanto più vero se uso il forno. Ci sarà un perché ma io non lo conosco. 
Così oggi vi propongo una torta di mele, anzi due. La prima è la classica, soffice, alta, “imperfetta”, adatta per la colazione, la merenda, un fine pasto (in questo caso non ci starebbe male una pallina di gelato accanto). La seconda è frutto di una ricetta dell’amica Silvia, è deliziosa ed è amatissima dagli adulti, un poco meno dai bambini perché prevede uvetta passa e pinoli. A voi la scelta.



La ricetta classica

Dosi per 6 persone

1 kg di mele renette – 200 g di farina – 180 di zucchero – 3 uova -  ½ bustina di lievito per dolci – una bustina di vanillina o qualche goccia di estratto di vaniglia – la scorza di un limone (o arancia) non trattato – 2 dl di latte – un  pizzico di sale



Innanzitutto accendete il forno a 180°C. Rompete le uova separando il rosso dall’albume che metterete in ciotola a parte, adatta per la battitura.  Ai tuorli unite quasi tutto lo zucchero (riservatene un cucchiaio) e un pizzico di sale: cominciate a montare con una frusta o lo sbattitore elettrico fin quando  la crema apparirà omogenea e schiarita. Aggiungete allora la farina setacciata insieme al lievito e alla vanillina e, mescolando con un cucchiaio di legno, incorporate il latte a filo. Avviate di nuovo il mixer fino a ottenere una massa liscia. A parte sbucciate le mele, tagliatele a fettine sottili e unitele al composto. Montate a neve ferma gli albumi, aggiungendo lo zucchero che avevate messo da parte,  quindi incorporateli delicatamente con un movimento dal basso verso l’alto (come se doveste far rotolare qualcosa).

Foderate uno stampo con carta da forno bagnata e ben strizzata, versatevi la massa sbattendo leggermente sulle pareti della tortiera per livellare la superficie, infornate a metà altezza e fate cuocere a 180°C per 40 minuti (verso i 30/35 minuti meglio fare un controllo attraverso il vetro). A cottura ultimata, lasciate riposare la torta in forno per qualche minuto (a porta aperta, questa volta), prima di sfornarla.



La ricetta di Silvia


Dosi per 6 persone

1 kg di mele renette – 175 g di farina – 2 uova - 100 g di zucchero – 100 g di burro – 100 g di pinoli - 50/70 gr di uvetta passa – ½ bustina di lievito – un pizzico di sale



Mettete a bagno le uvette, in acqua tiepida, per un’ora circa. Battete le uova intere con lo zucchero e un pizzico di sale, quindi aggiungete la farina setacciata con il lievito e il burro che avrete fatto fondere a bagno-maria. Mescolate bene con un cucchiaio di legno. Sbucciate le mele, tagliatele a  pezzetti e aggiungetele all’impasto unitamente ai pinoli e alle uvette scolate e ben asciugate. Se la massa risultasse troppo compatta (dura), aggiungete un goccio di latte o, a piacere, un po’ di liquore alla vaniglia. Ponete l’impasto nella teglia imburrata e infarinata, livellate con una spatola, tenendo conto che deve risultare un’altezza non superiore ai  3 cm. Infornare in forno preriscaldato a 180°C per 30/35 minuti, fin quando si sia formata una crosticina ben dorata.  



Piccoli consigli utili (forse)


- Il forno deve sempre essere pre-riscaldato, qualunque sia il piatto che dovete cuocere (quindi, pasta, carne, patate, torta….), ovviamente alla temperatura prescritta.

- Quando è previsto il burro fuso, la fusione può avvenire a bagno-maria oppure nel micro-onde, oppure in forno. Importante: il burro non deve mai arrivare al punto di frittura (insomma non deve sfrigolare).

- Questione vaniglia. Io credo che qualche goccia di vaniglia dia un tocco speciale all’impasto dolce e, infatti, cerco di avere sempre in casa dell’estratto. In alternativa uso il baccello (ricordate che va aperto e recuperati per l’uso i semini).  E se proprio non ho né l’uno né l’altro, mi rifugio nella bustina di vanillina di tipo industriale.

- Per asciugare bene le uvette, dopo averle tamponate in un canovaccio, potete impolverarle rapidamente con un pochetto di farina, che, scrollerete poi ben bene.
- Farina: quando non diversamente specificato, si intende farina di grano tenero "00" (meglio biologica).

giovedì 14 novembre 2013

Profumo d'infanzia, profumo d'antico: le Madeleines



A ogni bambino si dovrebbe regalare la possibilità di avere un ricordo: quello di un profumo buono che esce dalla cucina per invadere tutti gli spazi di casa. Quello di un sapore da portare dentro e riscoprire, da adulti, con sorpresa e nostalgia.


Su questo sapore ritrovato è stata scritta una delle più belle pagine della letteratura europea del  Novecento. 



La Petite Madeleine



“Era già da molti anni che, di Combray, tutto ciò che non era il teatro e il dramma del coricarmi, non esisteva più per me, quando un giorno d’inverno, appena rincasato, mia madre, accorgendosi che avevo freddo, mi propose di farmi  prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Io dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati petites Madeleines, che sembrano aver avuto come stampo la valva scanalata di una conchiglia di Saint Jacques. E subito, macchinalmente, oppresso dalla giornata cupa e dalla prospettiva di un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto di Madeleine. Ma nello stesso istante in cui quel sorso mescolato alle briciole del dolce toccò il mio palato, trasalii, attento a ciò che di straordinario avveniva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione del suo perché. E subito m’aveva reso le vicissitudini della vita indifferenti, i suoi rovesci inoffensivi,  la sua brevità illusoria, nello stesso modo in cui opera l’amore, riempiendomi di una essenza preziosa: o piuttosto quest’essenza non era in me, essa era me. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia possente? Io sentivo che era connessa col sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva? Che senso aveva? Dove fermarla? Bevo una seconda sorsata, non ci trovo più nulla di quanto avevo trovato nella prima, una terza che mi porta ancor meno della seconda. E’ tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. [ ………]

Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità. Ma come? [……] Ritorno mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza alcuna nuova chiarezza. Chiedo al mio spirito uno sforzo di più…ma mi accorgo della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze prima di un supremo tentativo. Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi…All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzettino di Madeleine che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonie mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio…..”

   
Marcel Proust, Alla Ricerca del Tempo Perduto - Dalla parte di Swann






La Ricetta delle Madeleines

(attribuita a M. Lenôtre, uno dei più grandi chefs di Francia)

Dosi per circa 20 dolcetti 


150 g di farina - 130 g di zucchero - 20 g di miele - 125 g di burro - 3 uova - 5g di lievito chimico - 1 pizzico di sale - buccia di 1/2 limone o arancia o qualche goccia di estratto di vaniglia



Far ammorbidire il burro al micro-onde o a bagno-maria. Battere le uova con lo zucchero, il pizzico di sale e il miele fin quando la battuta sia diventata praticamente bianca e abbia raddoppiato il volume. Aggiungere la farina setacciata unitamente al lievito. Concludere con il burro e la buccia di limone o arancia oppure aggiungere qualche goccia di estratto di vaniglia.
Mettere la massa in frigorifero per almeno due ore o, ancor meglio, per una notte intera. Infatti è la differenza di temperatura che produrrà, nella cottura, il caratteristico "bozzo" al centro della Madeleine.
Dopo il frigorifero, preriscaldare il forno a 230 °C. Imburrare e infarinare gli stampi idonei. Riempire le formine con una cucchiaiata di pasta (cucchiaio da minestra) senza pressarla.
Infornare e abbassare immediatamente a 200°C. Dopo 3/5 minuti il centro del dolce forma una fossetta: abbassare ancora il termostato del forno portandolo a 180°C e proseguire la cottura. Al posto della fossetta comparirà quel bombato caratteristico della Madeleine. Dopo ulteriori 4/5 minuti le Madeleines saranno dorate e bombate quindi sfornarle e toglierle immediatamente dagli stampi, ponendole su una griglia per il raffreddamento.

Piccoli consigli utili (forse)

 

- Il procedimento di batttitura delle uova sarà più semplice e rapido utilizzando fruste elettriche.
- Personalmente aggiungo il profumo di vaniglia anche con la buccia d'arancia o di limone. Va sempre ricordato che la buccia non deve avere traccia della pellicina bianca che ricopre il frutto poiché trasmetterebbe all'impasto un amarognolo poco gradevole.
- Le forme che devono ospitare i biscotti devono essere imburrate e infarinate anche se sono di silicone: ciò faciliterà enormemente lo svuotamento degli stampini, mantenendo integri i dolcetti.










martedì 12 novembre 2013

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Per iniziativa di MareMagnum.com 
nasce il 

Primo Salone Internazionale del Libro usato.

 

Si terrà presso la Fiera Milano Congressi
in via Gattamelata, Cancello 14/15

il 23 novembre dalle 10.30 alle 19.00
il 24 novembre dalle 9.00 alle 18.00

Ingresso gratuito


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I carciofi parlano... siculo!



La mia amica Alba, cuoca sopraffina che se la giostra benissimo tra le sue origini lombarde e quelle del marito siciliano, ci regala questo piatto delizioso che mi ha servito una volta nella sua casa di campagna. 

La ricetta n.2

Carcioffuli "a lassimi stari"

Per 6/8 persone
6 carciofi grossi e teneri - 100g di pangrattato appena tostato in padella
100g di parmigiano - 1 grossa cipolla - prezzemolo -  sale e pepe
olio extravergine di oliva

Pulite e spuntate i carciofi, ponendoli man mano in una bacinella di acqua acidulata con succo di limone. Terminata questa prima fase, ponete a tostare il pane grattugiato in una padella antiaderente, senza utilizzare grassi: la tostatura deve essere leggera. Asciugate i carciofi e tagliateli a fettine sottili (circa mezzo centimetro). Tritate cipolla e prezzemolo insieme. Prendete una teglia da forno, che possa anche andare in tavola, ungetela con olio extravergine di oliva e fate un primo strato di carciofi tagliati, distribuiti uniformemente; spolverizzateli  con il pangrattato tostato e mescolato sia con il parmigiano grattugiato sia con la cipolla e il prezzemolo già tritati. Per quanto riguarda sale e pepe, potete unirli a questo mix oppure spargerli direttamente sui carciofi. Fate così 4/5 strati, avendo cura di irrorare ogni strato con un filo di olio extravergine, ben distribuito. Terminate con il mix di pangrattato e seguito. Cottura in forno a calore moderato (180°) su griglia in posizione intermedia, per tre quarti d'ora, senza neanche guardare (a lassimi stari!).


Piccoli consigli utili (forse)


- “A lassimi stari!” Sono d’accordo e però un’occhiatina tanto per controllo la si può dare… anche perché se la preparazione si asciugasse troppo, potreste correre ai ripari coprendola con carta di alluminio per ricostituire l’umidità necessaria alla cottura.

- Pulire I carciofi è un dramma per le mani. Quindi, o usate i guanti di lattice oppure vi armate di limone e di pazienza e strofinate le dita fin quando tornano bianche. Tra l’altro, potreste approfittare per miscelare il limone con qualche goccia di glicerina: un bel massaggio sulle mani rovinate e dopo poco saranno tornate morbide e bianche.