Ricette

sabato 19 dicembre 2015

Firenze straordinaria: il Peposo e la Cupola del Brunelleschi





Chi mai sì duro o sì invido non lodasse Pippo architetto vedendo qui struttura sì grande, erta sopra e’ cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e’ popoli toscani, fatta senza alcuno aiuto di travamenti o di copia di legname, quale artificio certo, se io ben iudico, come a questi tempi era incredibile potersi, così forse appresso gli antichi fu non saputo né conosciuto?....”   
(Leon Battista Alberti, De Pictura)





“Pippo architetto” è il magnifico Filippo Brunelleschi, orafo, architetto, inventore della “prospettiva”, artefice della più grande cupola in muratura mai costruita al mondo. Era il 1420 quando iniziarono i lavori di quella ardita struttura che doveva coprire la crociera del Duomo di Firenze – Santa Maria del Fiore – che da più di cent’anni attendeva il “cappello”.  Ma l’attesa era valsa la pena.



Ecco come Giorgio Vasari – anch’egli pittore, architetto e autorevole storico dell’arte – descrive Brunelleschi.
“Molti sono creati dalla natura piccoli di persona e di fattezze, che hanno l’animo pieno  di tanta grandezza et il cuore di sì smisurata terribilità, che se non cominciano cose difficili e quasi impossibili e quelle non rendono finite con meraviglia di chi le vede, mai non dànno requie alla vita loro. E tante cose, quante l’occasione mette nelle mani di questi, per vili e basse che elle si siano, le fanno essi divenire in pregio et altezza. Laonde mai non si doverebbe torcere il muso, quando s’incontra in persone che in aspetto non hanno quella prima grazia o venustà, che dovrebbe dare la natura nel venire al mondo a chi opera in qualche virtù, perché non è dubbio che sotto le zolle della terra si ascondono le vene dell’oro.  E molte volte nasce in questi che sono di sparutissime forme, tanta generosità d’animo e tanta sincerità di cuore che, sendo mescolata la nobiltà con esse, non può sperarsi da loro se non grandissime meraviglie; perciò che e’ si sforzano di abbellire la bruttezza del corpo con la virtù dell’ingegno, come apertamente si vide in Filippo di Ser Brunellesco, sparuto de la persona non meno che Messer Forese da Rabatta e Giotto; ma di ingegno tanto elevato che ben si può dire che e’ ci fu donato dal cielo per dar nuova forma alla architettura, già per centinaia d’anni smarrita. …”





Perché parliamo di Brunelleschi e della sua cupola? Perché proprio durante i lavori è nato un piatto di carne molto gustoso. E a noi lo propone un amico, fiesolano-fiorentino per nascita ma milanese d’adozione, uomo di penna e di fornelli (penna per i lettori e fornelli per gli amici).

  IL PEPOSO 

Ricetta e testimonianza storica di Lorenzo Fuccaro

  
Breve storia: il Peposo nasce dalla poverta' e dalla fame dei fornacini, gli operai  che lavorano per il geniale Filippo Brunelleschi. Siamo nella città dei Medici, all'inizio di quel Rinascimento che culminerà nell'età d'oro di Lorenzo il Magnifico. Ma per questi fornacini dell'Impruneta addetti alla cottura dei mattoni necessari per la costruzione della cupola, la vita è dura. Per nutrirsi hanno solo del muscolo poco costoso e un po' tiglioso. Lo mettono a cuocere a lungo negli angoli delle fornaci insieme ai mattoni. Pagati poco, pochissimo, il lavoro duro. Alcuni di loro imbastiscono una forma di astensione dal lavoro. Per qualche giorno. Facendo infuriare Messer Pippo che non tollera contrarietà e insubordinazioni. Fatto sta che la carne messa da parte si guasta. Buttarla via non è pensabile per i poveri fornacini che così s'industriano a trovare una soluzione: aggiungono pepe, molto e in grani grossi, che nasconde il cattivo odore. Nasce cosi il Peposo alla fornacina.  


La Ricetta


1200 g di sottofesa anteriore o reale scelto di bovino adulto 1 bouquet composto da rosmarino, salvia, foglie di alloro 4 spicchi d’aglio – 25 grani di pepe nero 1 bottiglia Chianti classico (0,75 l) – sale q.b. 1 cucchiaio di farina di riso (facoltativa)
(ingredienti per 6/8 persone) 





Tagliare la carne in dadi delle dimensioni di circa 3 cm per lato.
In una casseruola (preferibilmente di coccio o di ghisa spessa) porre la carne, i chicchi di pepe, il mazzetto di aromi, l'aglio e aggiungere il vino.
Mettere su fuoco dolce e portare a ebollizione il liquido, in modo che evapori l'alcool.
Abbassare la fiamma, coprire con un coperchio a perfetta tenuta e lasciar cuocere lentamente per almeno tre ore, controllando la consistenza del liquido.
Quasi a termine cottura, aggiustare di sale.
Qualora lo si ritenga necessario o si gradisca un sugo leggermente denso, si suggerisce di aggiungere un paio di cucchiai da minestra di farina di riso.







Nota: Questo piatto non prevede l’utilizzo di grassi, quindi è bene scegliere carne con venature affinché mantenga la morbidezza in cottura.
In alcune ricette viene indicato anche il pomodoro. Cercando, per quanto possibile, di rispettare la storia dei "piatti" va forse ricordato che il pomodoro è arrivato i Italia solo nel XVI secolo e si è imposto in cucina  ben più avanti.

Per servire, una buona polenta di farina di mais bramata oro (grana grossa) oppure puré di patate mantenuto cremoso ma non molle. Oppure... come al solito, libero arbitrio!


 

Grazie alle fonti
 

domenica 22 novembre 2015

E il merluzzo diventò... baccalà!







“Nei mari del Nord,
tra un tuffo e uno spruzzo
viveva beato
il Pesce Merluzzo.
Ma un giorno i Vichinghi
dagli elmi a stambecco
lo videro
e allora lo fecero secco.
Strappato a milioni
dal placido abisso
e all’aria asciugato:
è lo stoccafisso.
I Baschi,
che stavano un poco più in basso, 
vedendo i merluzzi
restaron di sasso:
e i pesci, pescati con furia bestiale,
ficcati in barile
restaron di sale.
Nel mondo dilaga
la gran novità:
che grande sapore!
Cos’è? Il baccalà!”

Antonio Parlato dal libro “Sua Maestà il Baccalà”



Se lo stockfish– lo stoccafisso o pesce-bastone – nasce con i vichinghi nel più profondo Nord, al baccalà hanno pensato  i Baschi che, certamente, stanno più a Sud. 

Grandi navigatori anch’essi, i Baschi della Guascogna (Golfo di Biscaglia) erano noti come pescatori di vaglio e le cronache segnalano che già nel XIV secolo essi si spingevano nei mari del Nord alla ricerca di balene. Da documenti dell’epoca risulta che nel 1353 fu sottoscritto un accordo tra re Don Alfonso IV del Portogallo e Edoardo III d’Inghilterra, in virtù del quale era concesso ai portoghesi di pescare lungo le coste inglesi nei successivi 50 anni.  D’altra parte è assai probabile che la pesca al Nord fosse abitudine consolidata visto che fin dal  X secolo il Portogallo intratteneva rapporti commerciali con gli scandinavi, in particolare per la fornitura di sale.
In italiano il termine “baccalà” si usa per indicare il merluzzo salato ed essiccato mentre in portoghese la parola   “bacalhau” indica genericamente il merluzzo della specie “gadua morhua” – il merluzzo bianco o nordico – che si riproduce ed è pescato sostanzialmente nei Grand Banks, i Banchi di Terranova dove, nel periodo aprile-settembre, si ha il confluire della corrente fredda del Labrador e quella calda del Golfo. (vedi post precedente sullo stoccafisso).  


Caccia alle balene: questo significava individuarle, puntarle e inseguirle fino alla cattura. E, così facendo, un bel giorno qualche baleniera si trovò nei Grand Banks, letteralmente circondata da branchi di merluzzi di proporzioni incredibili. Narrano le cronache che questi pesci potevano essere pescati anche solo immergendo le mani nell’acqua. Irresistibile, ovviamente. E i Baschi – pur non scordando le balene – si convertirono alla pesca dei merluzzi.  Pesca sempre talmente copiosa da richiedere tecniche di conservazione che loro, per la verità, già utilizzavano per le balene: sale e barili. 

  
La salagione era una tecnica sconosciuta ai Vichinghi che subito l’apprezzarono, esportandola in molte parti del mondo come già facevano con lo stockfish.
I Vichinghi impararono dai Baschi questo nuovo sistema di conservazione del merluzzo, e ne estesero l'impiego: oltre che come cibo, sulle loro navi il baccalà fungeva anche da barometro. Dopo averlo messo sotto sale, lo appendevano a bordo con delle cime. Quando il baccalà cominciava a gocciolare voleva dire che era in arrivo una tempesta: la maggiore umidità dell'aria faceva infatti sciogliere il sale. Oggi i barometri sono senza dubbio più sensibili, ma altrettanto certamente non sono commestibili come quelli di una volta…

La storia del baccalà è lunga e tormentata, segnata da alti e bassi, dalle lotte politiche, dall’annessione del Portogallo da parte della Spagna, dalla crisi della pesca che ne seguì.

Nel XVI secolo i portoghesi disponevano di una flotta da pesca di almeno cinquanta imbarcazioni in attività nei Grand Banks e probabilmente esistevano già colonie di portoghesi “stanziali” nella stessa Terranova.  E durante il breve regno di Don Sebastiano – re a tre anni, incoronato a 23, scomparso in battaglia 14 mesi dopo, nel 1758 – risulta fossero pescate circa tremila tonnellate di pesce, corrispondenti più o meno al consumo interno del Portogallo. Dopo la morte di Sebastiano I  e del suo successore, il  cardinale Enrico I il Casto – entrambi senza eredi - la Spagna riuscì ad assicurasi il trono con Filippo II d'Asburgo e lo mantenne fino al 1640, data d’inizi0 della guerra di restaurazione portoghese. L’unione con la corona spagnola  determinò una crisi pesantissima per la pesca del bacalhau perché l’organizzazione dell’invincibile Armata assorbì tutte le navi disponibili.

 
 Sebastiano I del Portogallo                                                                    Filippo II di Spagna



La ripresa iniziò con la separazione del Portogallo dalla Spagna e quindi con la firma, nel 1642, di un Trattato di Pace e Commercio tra lo stesso Portogallo e l’Inghilterra. 
Tuttavia un’altra crisi era alle porte poiché l’Inghilterra impose sul pesce tasse e prezzi di vendita esorbitanti, decisamente sgraditi al Portogallo che considerava il bacalhau un alimento popolare.  Bisognerà attendere il XIX secolo per ritrovare slancio e stabilità di pesca.
 
Il percorso del baccalà attraverso i secoli – se così si può dire – è stato assai difficile, molto più di quello dello stoccafisso. Se in mare il bacalhau –  il merluzzo artico - è stato indiscusso protagonista,  la sua seconda mutazione,  il “pesce salato, ” ha fatto invece molta fatica a conquistare posizioni sulle tavole, certamente su quelle nobili che determinavano le tendenze. Infatti, per le sue caratteristiche di scarsa deperibilità, abbondanti calorie e prezzo contento, il baccalà è stato per lungo tempo considerato alimento degli strati sociali più bassi. 




Per trovare indicazioni di cottura in un “ricettario” portoghese, bisogna arrivare alla prima metà del Settecento: nella Biblioteca Nazionale di Lisbona sono custoditi due manoscritti che illustrano in totale cinque ricette.
Il tempo riparerà a questa mancanza se è vero, come lo è, che in Portogallo oggi si contino 365 ricette diverse (una per ogni giorno dell’anno e forse più) per la preparazione di piatti a base di baccalà. Con puntate di grande fama com’ è accaduto per la ricetta di Gomes de Sà, salita agli onori della gastronomia diventando piatto nazionale.

Questa ricetta ha una piccola, bella storia. José Luis Gomez de Sà è stato per anni un illustre sconosciuto. E’ vissuto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento a Oporto circondato dal …. baccalà. Il commercio del bacalhau era infatti  affare di famiglia e Josè Luis  ogni settimana preparava per gli amici polpettine apprezzatissime. Evidentemente aveva anche un’anima da gastronomo tanto che, partendo dalle polpettine, inventò un piatto più ricco, più completo, da passare al forno. Un bel giorno consegnò  la nuova ricetta, scritta di suo pugno, a un amico nonché cuoco di professione presso il Restaurante Lisbonense, di Oporto, presso il quale – si dice – sarebbe poi andato anche lui a lavorare. Il piatto entrò ufficialmente nel menu, ebbe un meritato successo, anzi  diventò ben presto un piatto-bandiera per l’intero Portogallo. E José Luis ebbe fama parallela e duratura perché al piatto fu dato il suo nome.



Di fatto, ogni località portoghese ha la propria ricetta originale, che rivendica come tale. E’ il caso di  Viana do Castelo, dal cui porto andavano e venivano i velieri e dove, da sempre, si secca il bacalhau.

Ma prelibatezze cucinate con il baccalà si trovano anche in Italia, specialmente al Centro-Sud  (il Nord ha un debole per lo stoccafisso), in Francia, naturalmente Spagna e… nel mondo intero.

E prima di cucinarlo…. istruzioni per l’uso



Come scegliere un buon baccalà? Prima regola: leggere sempre attentamente le etichette, perché l’identificazione attraverso il nome scientifico è una chiara traccia sull’origine del prodotto. Può accadere infatti che altri pesci della famiglia dei Gadidae, cugini del gadus morhua come il brosme, il ling o il pollak, vengano spacciati per baccalà. No, questi non fanno parte della nostra storia. Seconda regola: controllare visivamente il baccalà. Il pesce intero – detto la farfalla quando aperto e sotto sale - deve avere una lunghezza non inferiore ai 40 cm e uno spessore che, nel punto più alto, è almeno di 3 cm. La pelle deve essere traslucida, la carne elastica e di colore bianco.avorio. Se troppo bianca può aver subito trattamenti sbiancanti con la calce, se troppo gialla non essere stata trattata correttamente.






Il baccalà, se acquistato allo stato salato, prima dell’utilizzo deve essere dissalato con l’ammollo. Quest’operazione richiede normalmente due o tre giorni ciò dipendendo dal “pezzo” scelto. Se si acquista la farfalla intera, si procede così: 1) spazzolare (delicatamente!) da entrambi i lati  per togliere il primo e più evidente strato di sale; 2) sciacquare con cura sotto acqua corrente; 3) immergere il baccalà in una capiente bacinella riempita con acqua fresca, che andrà cambiata ameno quattro volte al giorno. Se possibile, lasciar correre un filo d’acqua nella bacinella stessa in modo che il ricambio sia continuo e non ci sia ristagno di sale.  4) Dopo 24 ore è possibile togliere la pelle (si tira dalla testa verso la coda) ma il consiglio è di tenerla perché per alcune ricette è importante sia sotto il profilo del sapore sia dal punto di vista  della consistenza che conferisce ai sughi. 5) nel caso la pelle venisse tolta, rimettere in ammollo il baccalà per altre 36 ore. Al termine dell’operazione, il pesce deve risultare morbido, elastico ma ancora intero.  
Lo stesso procedimento si usa in caso di acquisto del pesce in tranci, riducendo a 48 ore la permanenza in acqua, che comunque deve essere   cambiata regolarmente.
Va da sé che la parte migliore è quella del filetto che ha poche lische e praticamente zero scarto.

Nota importante:
 1) il baccalà dissalato e ammollato può essere congelato. In
commercio si trova sia quello già ammollato sia quello congelato;
2) il baccalà sotto sale quando ammollato in linea di massima aumenta il peso di circa il 30%. Ciò è da tenere presente nel calcolo delle porzioni.


Ricette



Bacalhau à Gomes de Sà
Oporto, Portogallo

Questa “dovrebbe” essere la ricetta originale, secondo testi portoghesi noti per affidabilità.

1 kg baccalà ammollato - 1 kg patate a pasta soda - 4 cipolle rosate
4 spicchi d’aglio – 4 dl olio extravergine d’oliva – 1 l di latte
100 g olive nere - 4 uova – prezzemolo – sale qb



Porre il baccalà in una casseruola, coprire d’acqua fredda senza aggiungere sale, portare lentamente a bollore e cuocere a fiamma dolcissima (l’acqua deve solo fremere) per 10-15 minuti, a seconda della parte utilizzata.  Scolare, togliere la pelle e diliscare accuratamente. Ridurre il baccalà a scaglie piuttosto grosse, disporle in una ciotola o marmitta, coprirle con latte bollente e lasciare riposare per due ore.  Nel frattempo, lavare accuratamente le patate, cuocerle con la buccia partendo da acqua fredda con un pizzicone di sale, facendo ben attenzione a che non si aprano nell’acqua.  Sbucciarle ancora calde e metterle da parte, intere.  In una teglia o tegame di coccio, affettare finemente le cipolle a rondelle e stufare nell’olio, unitamente agli spicchi d’aglio; quando le cipolle iniziano a prendere colore, aggiungere le patate tagliate a fette di circa 1 cm di spessore e il baccalà scolato dal latte. Mescolare con grande delicatezza.  Irrorare con olio extravergine d’oliva. Mettere in forno pre-riscaldato a 200°C posizionando la teglia a livello intermedio. Intanto, rassodare le uova, raffreddarle e affettarle. Lavare, asciugare e tritare il prezzemolo finissimo.

Quando la preparazione sarà leggermente dorata toglierla dal forno e decorarla con le rondelle di uova sode, le olive nere, cospargendo il tutto con il prezzemolo. Servire molto caldo. 

Nota: è opportuno assaggiare il baccalà in fase di realizzazione della ricetta.  L’obiettivo è importante: scoprire se sia necessario  aggiungere del sale.




Bacalao de Pamplona
Spagna

Le cronache dicono che fosse il piatto preferito di Ernst Hemingway



500 g baccalà salato da ammollare – 2 cucchiai olio extravergine di oliva
 2 spicchi d’aglio schiacciati – 2 pomodori maturi pelati – 1  cipolla grande tagliata fine – 1 peperone verde a pezzi  - 2 foglie d’alloro – ½ cucchiaino di zucchero -  ¼ di cucchiaino di semi di cumino – ½ cucchiaio di origano fresco o ¼ di quello secco – ½ cucchiaio di maggiorana fresca o ¼ di quella secca – 2 chiodi di garofano -  1 pizzico di pepe nero – ¼ di tazza di vino bianco secco – 150 g polpa di granchio -  100 g di code di gambero cotte e sgusciate – 250  g di funghi freschi coltivati – 2 cucchiai di salsa chili o Worcester.


Dissalare e ammollare il baccalà. La sera prima della preparazione del piatto,  scolare il baccalà dissalato, tagliarlo a pezzi di circa 5 cm di lato, porlo in una casseruola con la pelle rivolta verso il basso, ricoprirlo nuovamente di acqua fredda, lasciandolo tutta la notte. Il giorno dopo mettere la casseruola sul fuoco, portare l’acqua a ebollizione e far sobbollire a fuoco medio per 45 minuti. Assaggiare un pezzettino di pesce per valutarne la salatura: se ancora troppo salato, sciacquare il baccalà in acqua bollente, altrimenti scolarlo e metterlo da parte.
Riscaldare l’olio in una grande casseruola. Aggiungere aglio, pomodori, cipolla, peperoni, foglie d’alloro, zucchero, semi di cumino, origano, maggiorana, pepe a piacere, vino e  salsa. Far cuocere con il coperchio, lentamente, per 30 minuti quindi aggiungere il baccalà e continuare a cuocere, sempre con il coperchio, per altri 20 minuti. Infine unire la polpa di granchio, i gamberetti e i funghi tagliati a fettine e saltati rapidamente in un cucchiaio d’olio e  cuocere, sempre con il coperchio, per altri 10 minuti.

Servire con contorno di  fagioli bianchi lessati.




Baccalà alla fiorentina
Firenze




1,2 kg  filetto di baccalà ammollato – 4/5 patate di media grandezza – 500 g di pomodori maturi o  scatola di  pelati – 2 spicchi aglio – 1 manciata di farina di frumento – olio extravergine d’oliva qb – sale, pepe qb

Togliere le lische e la pelle al baccalà, facendo  attenzione a non  rompere la carne. Tagliare il pesce a pezzi regolari di circa 5 cm di lato, asciugarli con un canovaccio o carta da cucina idonea e infarinarli accuratamente ma leggermente (deve restare un velo di farina). Scaldare un bicchiere di olio in un tegame (meglio se di ferro)  e rosolarvi i pezzi di baccalà da entrambi i lati, fino a doratura.  Nello stesso olio (eventualmente filtrato per togliere residui di farina) cuocere le patate tagliate a rondelle alte circa 1 cm. Quando saranno quasi pronte, unirle ai tranci di baccalà in un tegame di coccio unto d’olio, quindi cospargere il tutto con l’aglio tagliato e i pomodori passati. Salare, se necessario, e pepare. Cuocere per circa 15 minuti a fuoco moderato e servire ben caldo.


Note

1) la farina di frumento può essere sostituita da atra idonea in caso di intolleranza al glutine;
2) Il tegame o casseruola dovrebbe essere di misura adeguata a contenere i tranci senza affastellamento



Baccalà con peperoni cruschi
Avigliano (Potenza)


700 g di baccalà sotto sale – 200 g di peperoni cruschi
 2 cucchiai di prezzemolo tritato –  1 testa d’aglio  - olio extravergine di oliva

Dopo aver dissalato il baccalà, immergerlo in una casseruola che contenga abbondante acqua fredda, porre sul fuoco a fiamma moderata e portare a bollore. Coprire la casseruola, abbassare il fuoco e continuare la cottura (l’acqua deve solo fremere) per 8 minuti. Sgocciolare il baccalà, tagliarlo a pezzi di circa 5 cm per lato, diliscarlo e spelarlo, quindi sfilettare.  Porre i filetti in un piatto di portata. Intanto i peperoni cruschi saranno stati tagliati a fettine o pezzettini, dopo averli privati dei semi. Sul fuoco mettere un pentolino alto con abbondante olio extravergine di oliva e aglio, portare a calore idoneo (non punto di fumo), immergere le fettine di peperone, poche per volta. Quando saranno croccanti, scolarle e appoggiarle su una carta assorbente cercando di tenerle al caldo. Alla fine di quest’operazione  rimettere i peperoni nell’olio bollente, eliminare l’aglio e versare il tutto sul baccalà. Cospargere di prezzemolo tritato fine e servire immediatamente.


Note

 1) I peperoni cruschi sono semplici peperoni rossi dolci raccolti e lasciati ad essiccare al sole, quindi legati in mucchietti con un filo di cotone doppio. La varietà più pregiata è prodotta a Senise e vanta il marchio IGP.

2) E’ meglio effettuare la frittura con pochi pezzettini per volta per poter controllare meglio che diventino croccanti senza annerire: se bruciassero, diventerebbero amari.





Baccalà alla napoletana
Napoli

800 g baccalà ammollato – 20 g di capperi sotto sale – 80 g olive nere di Gaeta – una grande scatola di pomodori pelati o 1 kg di pomodori freschi ben maturi – 20 g di pinoli – 50 g uvetta sultanina – 1 spicchio d’aglio – olio extravergine di oliva qb – origano

Preparate il sugo. In un tegame, meglio se di coccio, versate 4 cucchiai di olio extravergine d’oliva, e aggiungete lo spicchio d’aglio; quando questo inizia a imbiondire, toglietelo  e aggiungete i pelati tagliuzzati o i pomodori freschi cui avrete tolto la pelle e i semi; fate cuocere a fuoco dolce per una decina di minuti; aggiungere i pinoli, i capperi dissalati in acqua, le olive di Gaeta sciacquate dalla salamoia e snocciolate, l’uvetta sultanina  che avrete ammorbidito in acqua. Salate (moderatamente) e pepate. Intanto spellare e togliere le  lische al baccalà; tagliarlo a tranci e accomodarli in una teglia; coprire il tutto con il sugo preparato. Irrorare con un filo d’olio e  completare con una spolverata di origano. Infornare in forno pre-riscaldato a 180°C per 45.50 minuti.

Note
1) Questa è una delle molte versioni di baccalà alla napoletana. In alcune, ad esempio non si trova traccia di pinoli e uvetta.
2) A proposito di pinoli, acquistate solo quelli italiani: costano più degli altri ma non riservano sorprese. Ora circolano in Italia molti pinoli provenienti dall’estero e, in particolare, dalla Cina. Meglio evitare per non rovinare la preparazione.




Acras de morue
Antille francesi





600 g di baccalà ammollato – 2 cipolle – 1 cucchiaio di erba cipollina tagliata a pezzi piccoli piccoli – 1 cucchiaino da caffè di peperoncino antillese macinato – 250 g di farina – 1 cucchiaino da caffè di lievito chimico 
40 cl di latte – 2 uova – 1 dl di olio di semi di arachide – sale e pepe qb


Sciacquare il baccalà dissalato, metterlo in una casseruola con abbondante acqua fredda, portarlo lentamente a ebollizione; dal momento del bollore cuocere per 15 minuti  a fiamma molto bassa tanto che l’acqua deve solo fremere. Terminato il tempo, scolare, eliminare la pelle e le lische poi ridurre il pesce quasi in poltiglia lavorando con una forchetta. Aggiungere le cipolle pelate e affettate finemente, l’erba cipollina, il peperoncino. Mescolate accuratamente.
Setacciate farina e lievito in altro recipiente; rompere le uova al centro, mescolare e incorporare poco a poco il latte. Salare e pepare. Scaldare l’olio per la frittura in una padella di ferro a bordi alti e far scivolare nell’olio bollente delle cucchiaiate di impasto. Lasciar friggere per 3-4 minuti fin quando i bigné non appariranno ben dorati. Scolare e asciugare su carta assorbente. Servire le acras ben calde.




Grazie alle Fonti


e per i libri

Antonio Parlato, “Sua Maestà il Baccalà”, (Ed. Colonnese, 2007)

Graig Boreth, “A tavola con Hemingway”, (Lit Edizioni srl, 2013)

“Ricette di Osterie d’Italia” (Slow Food Editore, 2001)




martedì 3 novembre 2015

Arriva dal passato il pesce che vive due volte. E anche di più.





1431, quasi seicento anni fa. L’autunno aveva debuttato da pochi giorni. Pietro Querini, patrizio veneziano, una potente famiglia alle spalle, membro di diritto del Maggior Consiglio della Serenissima, è in balìa delle onde di un mare aggressivo, non più amico.  La caracca di cui è comandante – la Querina – è sopraffatta dalla tempesta… Ma andiamo con ordine, nel racconto.



 Il 25 aprile di quel 1431, il nobiluomo – mercante e navigatore audace - dopo aver armato la sua nave, salpa per le Fiandre da Candia (cioé Creta, terra veneziana), con un prezioso carico: 800 barili di Malvasia, il vino pregiato prodotto nell’isola greca, nei feudi di Castel di Termini e Dafnes, di cui è signore. Inoltre, spezie, cotone, cera, allume di rocca e altre mercanzie di consistente valore, per un totale di circa 500 tonnellate.
Con lui, sessantotto uomini di equipaggio e due luogotenenti: Nicolò de Michiel – anch’esso patrizio veneziano – e Cristofalo Fioravante.




Siamo a settembre. La navigazione fino ad allora si è svolta senza grandi turbamenti ed è stato raggiunto  Capo Finisterre. Il clima si va facendo rigido, il mare burrascoso. Il Capo viene doppiato ma da quel  momento arrivano i guai, grossi guai:  la Querina è investita ripetutamente da devastanti tempeste e spinta sempre più a ovest al largo dell’Irlanda.  Prima si rompe il timone, poi la caracca è disalberata dalla furia del vento e delle onde e, trasportata dalla corrente del Golfo, va alla deriva per diverse settimane. E’ ormai il 17 dicembre: il vascello è diventato un relitto e il comandante dà ordine di calare le due scialuppe di salvataggio rimaste. L’equipaggio si divide: 18 uomini sulla più piccola, i restanti  - comandante compreso - sulla lancia più grande. 




Iniziano giorni e notti di stenti: gelo, viveri razionati, marinai che muoiono uno dopo l’altro. E della scialuppa piccola si sono subito perse le tracce.  L’incubo, per il comandante e ciò che resta del suo equipaggio, dura quasi un mese: il 14 gennaio 1432 i superstiti avvistano terra. Sono rimasti in sedici e sbarcano su una piccola isola deserta, quasi uno scoglio: si chiama Sandoy è vicina a un’altra isoletta, Rost, nell’arcipelago norvegese di Lofoten.




Si accampano, i disperati, sopravvivono nutrendosi di patelle e scaldandosi con piccoli fuochi. E proprio i deboli fuochi li salveranno. Dopo undici giorni, alcuni abitanti di Rost – 120 anime che vivono di pesca – notano insoliti bagliori e vanno a scoprire di che si tratta. Trovano i naufraghi, li raccolgono e accolgono nelle loro case. Li curano e li rimettono in piedi.  Dal rapporto di Pietro Querini al Senato della Serenissima (diario obbligatorio), si apprende che questi isolani - alti e bellissimi - vivono “in una dozzina di case rotonde con aperture circolari in alto, che coprono con pelli di pesce”. Il pesce, la loro ricchezza.




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 Scrive Querini:  …”prendono fra l’anno innumerabili quantità di pesci e solo di due specie: l’una, ch'è in maggior anzi incomparabil quantità, sono chiamati stocfisi; l'altra sono passare, ma di mirabile grandezza, dico di peso di libre dugento a grosso l'una. I stocfisi seccano al vento e al sole senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come legno. Quando si vogliono mangiare li battono col roverso della mannara, che gli fa diventar sfilati come nervi, poi compongono butiro e specie per darli sapore: ed è grande e inestimabil mercanzia per quel mare d'Alemagna. Le passare, per esser grandissime, partite in pezzi le salano, e così sono buone (...). »







I veneziani, ospiti graditi e straordinariamente accuditi  (alcuni trovano perfino moglie…), restano a Rost per quattro mesi: il 15 maggio 1432 Pietro Querini e i luogotenenti prendono posto su una barca diretta a Bergen, sbarcano a Trondheim e quindi si imbarcano su una nave diretta a Londra dove saranno accolti dalla ricca comunità veneziana. Da qui, a cavallo, raggiungeranno Venezia, passando per Basilea.
Uomo accorto, Querini porta con sé alcuni esemplari di stoccafisso e li presenta al Senato della Serenissima magnificandone le qualità: lunga conservazione, proprietà nutritive eccellenti, ottimo sostituto della carne, perfetto per lunghe missioni, sia di mare sia di terra. Ci vorrà un po’ di tempo ma l’intuizione di Querini con il tempo si trasformerà in un successo, un grande successo, di proporzioni allora inimmaginabili. 



Pietro Querini tornò a Rost, da quelli che erano diventati “amici”, per scambiare vino e spezie con stoccafisso. Ma questo non gli bastava, voleva scoprire altre terre. Così, al comando della sua nave, lasciò Lofoten per puntare ancora più a Nord. E sparì fra i ghiacci eterni, diventando leggenda.



Un secolo dopo, nel dicembre 1563, il Concilio di Trento, emanando le direttive per i cattolici, sancisce l’obbligo del “magro e digiuno” per quasi 200 giorni e raccomanda lo stoccafisso come piatto magro per tutti i mercoledì e i venerdì. E certamente per l’intera Quaresima. E’ la consacrazione dello stoccafisso, con la certezza di una diffusione capillare.


Ma che strano pesce è lo stoccafisso?  
La risposta è semplice: il merluzzo artico. Nome scientifico Gadus Morhua., famiglia dei Gadidae, ordine dei Teleostei. Che, non a caso, è anche detto “il pesce che vive due volte”. 




Stoccafisso e Baccalà: ecco la metamorfosi del merluzzo, fuori dall’acqua.  Un solo pesce, due metodi di conservazione propri di popoli ben differenti, quelli che abitano le gelide terre del Nord e quelli che godono il calore del Sud. Due metodi che non ne alterano le caratteristiche nutritive.
 Stoccafisso è il merluzzo che viene essiccato all’aria, al vento, alla pioggia, al sole, appeso su bastoni posti su grandi rastrelliere, oggi come ai tempi di Querini. E anche prima:  infatti è, questa, una tecnica messa a punto addirittura dai vichinghi.




Baccalà è il merluzzo che, appena pescato nelle acque del profondo Nord, è decapitato, aperto, pulito e messo in barili sotto sale per circa tre settimane. Variante: salatura e passaggio in tunnel per una settimana.




Il merluzzo artico norvegese, pesce predatore, regna nei “Grand Banks”, la piattaforma continentale di 3500 kilometri quadrati, situata nell’Atlantico Settentrionale, al largo di Terranova e delle coste del Labrador. Più precisamente, della parte occidentale, nella zona compresa tra la Groenlandia fino alla Carolina del Nord, e della parte orientale con Mare di Norvegia fino all’Islanda e lo Spitzbergen, Mare del Nord e Mare di Barentz. Nei Grand Banks la scarsa profondità, variabile tra 25 e 100 metri, e l’incrocio tra la calda corrente del Golfo e la fredda corrente del Labrador, che sollevano dal fondale le sostanze nutrienti, ne fanno una delle zone più pescose al mondo.
Il merluzzo non esiste nel Mar mediterraneo che non gli assicura un habitat adatto. Ci sono, nel Mar Mediterraneo, altre specie della famiglia come il nasello (Merluccius merluccius), che però nulla ha a che vedere con il merluzzo nordico.

Identikit del merluzzo artico

Il Gadus Morhua può superare i 50 kg di peso e il metro e mezzo di lunghezza.  Colore verdastro, leggermente maculato sul dorso, linea bianca laterale lungo tutto il corpo.
Vive in branco nelle gelide acque dei mari del Nord e – un po’ come fanno i salmoni – quando raggiunge la maturità, intorno 6/7 anni, migra lungo le coste della Norvegia per deporre le uova. E’ una specie  molto feconda e ciascun esemplare arriva a deporre  dagli 8 ai 10 milioni di uova pelagiche l'anno. Alcuni ci riescono a deporre le loro uova, altri sono catturati appena prima e costituiscono il massimo desiderabile dai gourmet: provengono dal mare di Barents, sono chiamati SKREI, e la pesca, severamente regolamentata, ne è consentita solo tra gennaio e aprile.


Questi esemplari sono definiti “merluzzi innamorati” per via del loro stato e il tipo di pesca è detto “di corsa” perché deve essere affrettato. La polpa è bianca, succulenta, soda, più grassa di quella di un merluzzo normale, dunque ha una morbidezza eccezionale.


E il nome?
Il nome deriva probabilmente dalla cittadina norvegese di Stokke. Secondo alcuni però potrebbe derivare dal norvegese stokkfisk oppure dall'olandese antico stocvisch -  "pesce a bastone” -, secondo altri dall'inglese stockfish, -"pesce da stoccaggio" (scorta, approvvigionamento) -; altri ancora sostengono che pure il termine inglese sia mutuato dall'olandese antico, con lo stesso significato di "pesce bastone".
Nell'Italia meridionale, luogo dove fu inizialmente introdotto dai normanni, viene chiamato stocco o pesce stocco (piscistoccu) ed è particolarmente legato alla città portuale di Messina.

Nel Veneto, ma anche in Friuli, lo stoccafisso si chiama “bacalà”. “Bacalà” con una “c” sola. Perché il “baccalà” (doppia “c”) ha un’altra storia e viene da un altro mondo.

Nota: In questo post ci concentriamo sullo stoccafisso. Per il Baccalà l’appuntamento è a breve, praticamente subito.


Preparare lo stoccafisso
Lo stoccafisso, si è detto, è duro come un bastone e anche di più. Dunque, per poterlo cucinare è indispensabile ammorbidirlo e reidratarlo: due passaggi fondamentali per la riuscita di qualsiasi piatto. 
·      Quando si compera una baffa (così si chiama il pesce intero) è opportuno chiedere in pescheria se lo stoccafisso è già stato battuto. Dovrebbe esserlo ma, se non lo fosse, bisogna armarsi di un pestello o martello di legno e batterlo per ammorbidire le fibre. 
·       Segue l'ammollo, preceduto da una piccola ma importante operazione.

Prima di iniziare a bagnare lo stoccafisso, vi suggeriamo di rimuovere il “budello”, ovvero la vescica natatoria del pesce. Non è una pratica comune, è un accorgimento che permette di ottenere uno stoccafisso più gustoso perchè rende la procedura di ammollo “meno contaminata” e più pulita. Il “budello”, infatti, è la parte dello stoccafisso che contiene la più alta concentrazione batterica ed è quindi la parte più “puzzolente”, che potrebbe alterare il sapore finale del piatto. La vescica natatoria si trova all’interno del pesce, è di colore nero ed è facilmente identificabile una volta aperto il pesce a metà. Se intendete usare il “budello”, eseguite comunque questo passaggio e ammollatelo in un contenitore a parte per poi unirlo successivamente nella fase di cottura: è quanto avviene per lo Stoccafisso in buridda, grande e classica ricetta della cucina ligure.

A seguire: 
a) mettere lo stoccafisso in un recipiente pieno di acqua fredda, coprendo interamente il volume del pesce, e tenerlo al fresco (bene in frigorifero a circa +4°C)
b) cambiare l’acqua dopo due ore, sciacquando accuratamente lo stocco. Porre ancora al fresco
c) rinnovare l’acqua ogni 8 ore per una durata complessiva di 36/48 ore (o più se il pesce non risultasse sufficientemente morbido.
Finita l’ammollatura, lo stoccafisso deve essere considerato come un pesce fresco e valgono pertanto le stesse modalità di conservazione. Sebbene sia possibile conservarlo in congelatore dopo l’ammollo,  consigliamo di utilizzarlo subito.

A questo procedimento esistono alternative che semplificano la vita.

Lo stoccafisso si può trovare già bagnato sui banchi delle pescherie, dei supermercati, dei mercatini rionali  e perciò se ne possono acquistare anche solo dei tranci.  Personalmente suggerisco di passarlo ancora in acqua fredda corrente per qualche ora.

Esiste poi in commercio stoccafisso di eccellente qualità già bagnato, congelato, con o senza pelle.  A questo punto introduciamo il tema della qualità. Per il congelato, il marchio che ci sentiamo di suggerire è HALVORS (prodotto e distribuito da JC-Jolanda de Colò).  Per quanto riguarda lo stoccafisso secco, da anni e anni la qualità ricercata si chiama RAGNO.

Infine, una precisazione sulle quantità.  Uno stoccafisso secco va dai 60 agli 80 cm di lunghezza e dai 900 ai 1200 g di peso per gli esemplari grandi mentre per i più piccoli dai 750 agli 800 g.
Dopo l’ammollo, sono recuperate (più o meno) le dimensioni originali con raddoppio del volume e triplicazione del peso.
Per 4 persone, la quantità corretta prima dell’ammollo si aggira tra i 400 e i 500 grammi.


Le ricette

Abbiamo dovuto scegliere: la quantità di ricette con protagonista lo stoccafisso è di numero inimmaginabile. Così abbiamo fatto una selezione (drastica) tenendo conto delle regioni in cui c’è un forte radicamento di questo straordinario alimento.



Bacalà mantecato alla veneziana
Ricordando Pietro Querini e il suo equipaggio



750 g stoccafisso secco - 500 g latte intero - 1500 g acqua
1 l olio di semi di arachide - sale e pepe q.b

Dopo l’ammollo, rimuovere spine e pelle, quindi mettere in una pentola con l’acqua e il latte,  portare a bollore e, dopo aver regolato al minimo la fiamma, far cuocere per 25 minuti al massimo.  Lasciar raffreddare per almeno mezz’ora. Scolare (conservando il liquido di cottura) e passare nel mixer tutta la polpa, poi trasferirla nella planetaria con un po’ di olio di arachidi e iniziare a montare aggiungendo un poco di liquido di cottura.  Continuare alternando olio e liquido di cottura (quest’ultimo solo se necessario per la morbidezza), fin quando l’olio non sia terminato. Aggiustare di sale e pepe, amalgamando il composto con una spatola per non farlo smontare.
Servire il bacalà con polenta, cosparso di un po’ di erba cipollina.

La ricetta si deve allo chef Daniele Zennaro ed è stata presentata al Milano Food & Wine Festival del 2014. Il piatto è servito nello storico ristorante veneziano  Vecio Fritolin.



Bacalà alla vicentina


1 kg stoccafisso secco – ½ l olio extravergine di oliva –
250/300 g cipolle -  3 sarde sotto sale – 1/2 l latte fresco
1 manciata di farina bianca – 50 g grana grattugiato
1 ciuffo prezzemolo tritato – sale e pepe q.b.

Dopo l’ammollo aprire il pesce per lungo, togliere lisca e spine. Tagliarlo a pezzi. Affettare finemente le cipolle, rosolarle in un tegamino con un bicchiere d’olio, aggiungere le sarde sotto sale(dissalate e disliscate, ndr) tagliate a pezzetti e, per ultimo, a fuoco spento, unire il prezzemolo tritato. Infarinare leggermente i vari pezzi di bacalà, irrorarli con una parte di soffritto, disporli uno accanto all’altro in un tegame di coccio o alluminio sul cui fondo sarà stato messo un altro poco di soffritto; ricoprire il pesce  il soffritto restante quindi aggiungere il latte, il grana grattugiato, sale e pepe (attenzione al sale!). Unire l’olio fino a ricoprire tuti i pezzi livellandoli. Cuocere a fuoco molto dolce per circa 4 ore e mezza, muovendo ogni tanto il tegame in senso rotatorio, senza mai mescolare. Questa fase di cottura, in termine vicentino, si chiama “pipare”.
Il baccalà alla vicentina è ottimo dopo un riposo di 12 ore (ma anche di 24).

Questa ricetta è stata ritrovata e convalidata in molte riunioni di studio dalla Confraternita del Bacalà  che ha sede istituzionale a Sandrigo.  La Confraternita, tuttavia, riconosce che ci sono molte varianti, come spesso accade nelle ricette che si tramandano. “Su un punto sono tutti d’accordo: l’olio di cottura deve essere della migliore qualità, abbondante, e il bacalà non deve mai essere rimescolato.



Stoccafisso accomodato
(Genova)



800 g di stoccafisso già ammollato – 500 g patate – 50 g pinoli
20 olive nere taggiasche – 1 cipollina –1 spicchio d’ aglio
1 ciuffo prezzemolo – 1 cucchiaio pomodori secchi
1 cucchiaio concentrato di pomodoro
1 bicchiere vino bianco secco – olio extravergine di oliva qb

Dopo averlo sbollentato, diliscate lo stoccafisso e tagliatelo a pezzi. Sbucciate e tagliate a pezzettoni le patate. Tritate e soffriggete lievemente in un bicchiere di olio extravergine di oliva  la cipolla, l’aglio, il prezzemolo e i pinoli. Versate il vino bianco, i pomodori secchi e il concentrato. Quando il vino è evaporato, aggiungete i pezzi di stoccafisso, le patate (crude) e le olive intere. Salate e versate acqua calda a più riprese fino a coprire il tutto e fino a cottura ultimata (circa mezz’ora).

La ricetta è della Trattoria da Jolanda, a Isoverde di Campomorone (Genova) ed è segnalata nel Libro “Osterie d’Italia” di Slow Food. Lo stocche accomoddou a zeneise è il classico piatto del venerdì nelle osterie liguri.


Brandcujun
Stoccafisso mantecato alla sanremese




1 kg stoccafisso bagnato – 1 kg patate - 1 cipolla
1 bicchiere di olio extravergine di oliva
 1 spicchio d’aglio - 1 limone (succo) – prezzemolo
 sale e pepe q.b.

Partendo da acqua fredda non salata cuocere lo stoccafisso a fiamma dolce per 45/50 minuti; scolare tenendo da parte il liquido di cottura che servirà per un’eventuale aggiunta alla preparazione e, la parte maggiore, per cuocere le patate e la cipolla. Mentre questa cottura procede togliere la pelle allo stocco e diliscando con grande attenzione: nessuna preoccupazione se, con questa operazione il pesce va a pezzetti.
Preparare un battuto d’aglio e prezzemolo, unirlo all’olio, al succo di limone, quindi salare e pepare.
Mettere stoccafisso, patate e cipolla in un mixer e sminuzzare a colpi brevi fino a ottenere un composto “ruvido” nel quale si sentano frammenti di pesce.
Amalgamare questo composto alla salsina preparata con il battuto e, se necessario, allungare con l’acqua di cottura fino ad ottenere una consistenza morbida.
Servire su  fette di pane tostato strofinate con aglio (se gradito).

Il termine Brandcujun o Brandcojon o Brand de cojun testimonia il collegamento con la Provenza tramite la quale avvenivano le importazioni di stoccafisso.” Brandade”  deriva da “branler” o “brandir”, cioè scuotere. In sostanza, il termine avrebbe un’origine antica, nata a bordo dei pescherecci dove l’assemblaggio degli ingredienti – stoccafisso, patate, cipolla… - avveniva mediante lo scuotimento energico impresso dai marinai alla pentola tenuta fra le gambe. Quindi se “brandade” è il frutto dello scuotimento, cosa significhi “cujun” non è difficile da immaginare!


Stoccafisso all’Anconetana
(Ricetta Originale)



1 kg. di Stoccafisso già bagnato - 5 acciughe  - 3 carote
 1 cipolla di media grandezza - 2 coste di sedano verde
 3 rametti di rosmarino –50 g di capperi dissalati
1/3 di litro di vino Verdicchio dei Castelli di Jesi
1 peperoncino (facoltativo) – 100 g di olive nere
1 kg di pomodori a grappolo maturi - 1 kg di patate
1/2 litro di olio extra vergine di oliva - sale q.b.


Pulire lo Stoccafisso togliendo la spina centrale, tagliarlo a pezzi e predisporli in una teglia dal bordo alto.
Preparare un battuto finissimo con  sedano, carota, cipolla, capperi, acciughe e rosmarino e con la metà di questo trito condire lo Stoccafisso predisposto precedentemente in teglia, aggiungendo sale q.b. e circa mezzo litro di olio extra vergine di oliva.
Tagliare le patate a spicchi di media grandezza e metterle sopra lo strato di Stoccafisso fino a coprirlo totalmente.
Condire il tutto con l’altra metà del trito rimasto, poco peperoncino tagliato sottile (facoltativo), sale, pomodori a pezzi qua e la, il vino Verdicchio, acqua fredda fino a coprire il tutto e olive nere.
Lasciarlo cuocere a fuoco lento per circa 2 ore (30 min. sul gas e 1h e 30min. al forno a 130/140 gradi circa). Il consiglio è di consumare questo semplice piatto tipico 12 ore dopo la cottura.
La ricetta classica prevedeva di mettere uno strato di canne di bambù tra il fondo della teglia e lo Stoccafisso per evitare che il preparato si attaccasse. In alternativa si può usare una griglia.

La ricetta è codificata dall’Accademia dello stoccafisso all’anconitana. Un’Accademia nata sul filo della storia: le navi che da Ancona arrivavano alle città anseatiche e sovente risalivano i fiordi della Norvegia, per non tornare vuote importavano grandi quantità di stoccafisso soprattutto dalle isole Lofoten. Così è nato un piatto che è diventato simbolo gastronomico della città.



Piscistoccu agghiotta a la missinisa



1 Kg di stoccafisso ammollato – 300 g di pomodori
freschi e maturi - 200 g di olive bianche in salamoia
100 g di capperi - 50 g di gambi di sedano con foglie
50 g di carote - 200 g di cipolla
150 g di pere 'mputiri (pere da cuocere) o patate
50 g di conserva di pomodoro - 30 g di pinoli
30 g di uva passolina – 1 manciata di farina
olio extravergine di qb - sale e peperoncino


Sgocciolare e disliscare con cura lo stocco, tagliarlo a pezzi quadri mantenendo la pelle,  asciugarlo bene e infarinarlo leggermente. In un capace e largo tegame di terraglia o alluminio (dovrebbe contenere il pesce in unico strato) rosolare in olio la cipolla affettata sottile, i gambi di sedano a rondelle, prima sbollentati e privati di tutti i filamenti e  le carote tritate, senza far scurire il soffritto; aggiungere i pezzi di stocco infarinati rigirandoli delicatamente per dorarli su tutte le parti ma laccomodandoli – alla fine di questo breve procedimento – appoggiati con la pelle verso il fondo del tegame; unire i pomodori freschi a pezzetti e lasciar sobbollire per qualche minuto a fiamma dolce; unire poi i tocchetti di patate o pere (sbucciate). Sciogliere in acqua calda due o tre cucchiaini  di conserva di pomodoro e versarla sul pesce in quantità tale da coprirlo. Cuocere a fiamma bassa per una mezzora, aggiungere l'uva passa, prima ammorbidita in acqua tiepida, i pinoli, sale e pepe. Proseguire la cottura per un paio d’ore senza mai rigirare la preparazione. E’ però utile scuotere il tegame con movimento circolare per evitare che la farina faccia da collante sul fondo. Trascorse queste due ore (più o meno) è la volta dei capperi, delle olive bianche e delle foglioline verdi del sedano. Ancora una buona mezz'ora di cottura e, quando il sugo diventa sciroppo, le patate (o le pere) sono morbide e il pesce è in via di sfaldamento, lo stocco è pronto. Prima di servire irrorare con un filo di olio crudo.

Questa ricetta è frutto di ricerca e mediazione fra le decine di proposte scritte e/o orali  in circolazione. Le diversità sono soprattutto rappresentate dall’alternativa tra l’uso delle pere – di tradizione – o la loro sostituzione con le patate, come accade sempre più sovente. Allo stesso modo c’è chi mantiene l'uva passa e i pinoli e chi invece ne fa a meno. Questione di gusti e di modi. Una cosa è certa: l’eliminazione di alcuni ingredienti non può che appiattire i sapori, rendendoli tutti più simili l’uno all’altro, lungo l’intero stivale.



Grazie alle fonti

 www.wikipedia.it - www.alimentipedia.it - www.taccuinistorici.it - www.circolopolare.com - www.gustosamete.com - www.pescamare.net - www.scmncamogli.org - www.tagliapietra.com - http://veciofritolin.it - www.arsvitae.it - http://prodottipolesine.it - www.accademiasitalianacucina.it - http://baccalaallavicentina.it - httpp://visitancona.com -www.jolandadecolo.it - www.cataniatradizioni.it