1431, quasi seicento anni
fa. L’autunno aveva debuttato da pochi giorni. Pietro Querini, patrizio
veneziano, una potente famiglia alle spalle, membro di diritto del Maggior
Consiglio della Serenissima, è in balìa delle onde di un mare aggressivo, non
più amico. La caracca di cui è
comandante – la Querina – è sopraffatta dalla tempesta… Ma andiamo con ordine,
nel racconto.
Il 25 aprile di quel 1431, il nobiluomo – mercante e
navigatore audace - dopo aver armato la sua nave, salpa per le Fiandre da Candia
(cioé Creta, terra veneziana), con un prezioso carico: 800 barili di Malvasia,
il vino pregiato prodotto nell’isola greca, nei feudi di Castel di Termini e
Dafnes, di cui è signore. Inoltre, spezie, cotone, cera, allume di rocca e
altre mercanzie di consistente valore, per un totale di circa 500 tonnellate.
Con lui, sessantotto
uomini di equipaggio e due luogotenenti: Nicolò de Michiel – anch’esso patrizio
veneziano – e Cristofalo Fioravante.
Siamo a settembre. La
navigazione fino ad allora si è svolta senza grandi turbamenti ed è stato
raggiunto Capo Finisterre. Il
clima si va facendo rigido, il mare burrascoso. Il Capo viene doppiato ma da
quel momento arrivano i guai,
grossi guai: la Querina è
investita ripetutamente da devastanti tempeste e spinta sempre più a ovest al
largo dell’Irlanda. Prima si rompe
il timone, poi la caracca è disalberata dalla furia del vento e delle onde e,
trasportata dalla corrente del Golfo, va alla deriva per diverse settimane. E’
ormai il 17 dicembre: il vascello è diventato un relitto e il comandante dà
ordine di calare le due scialuppe di salvataggio rimaste. L’equipaggio si
divide: 18 uomini sulla più piccola, i restanti - comandante compreso - sulla lancia più grande.
Iniziano giorni e notti di
stenti: gelo, viveri razionati, marinai che muoiono uno dopo l’altro. E della
scialuppa piccola si sono subito perse le tracce. L’incubo, per il comandante e ciò che resta del suo
equipaggio, dura quasi un mese: il 14 gennaio 1432 i superstiti avvistano
terra. Sono rimasti in sedici e sbarcano su una piccola isola deserta, quasi
uno scoglio: si chiama Sandoy è vicina a un’altra isoletta, Rost,
nell’arcipelago norvegese di Lofoten.
Si accampano, i disperati,
sopravvivono nutrendosi di patelle e scaldandosi con piccoli fuochi. E proprio
i deboli fuochi li salveranno. Dopo undici giorni, alcuni abitanti di Rost –
120 anime che vivono di pesca – notano insoliti bagliori e vanno a scoprire di
che si tratta. Trovano i naufraghi, li raccolgono e accolgono nelle loro case.
Li curano e li rimettono in piedi.
Dal rapporto di Pietro Querini al Senato della Serenissima (diario
obbligatorio), si apprende che questi isolani - alti e bellissimi - vivono “in una dozzina di case rotonde con aperture
circolari in alto, che coprono con pelli di pesce”. Il pesce, la loro
ricchezza.
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Scrive Querini: …”prendono fra l’anno innumerabili quantità di
pesci e solo di due specie: l’una, ch'è in
maggior anzi incomparabil quantità, sono chiamati stocfisi; l'altra sono
passare, ma di mirabile grandezza, dico di peso di libre dugento a grosso
l'una. I stocfisi seccano al vento e al sole senza sale, e perché sono pesci di
poca umidità grassa, diventano duri come legno. Quando si vogliono mangiare li
battono col roverso della mannara, che gli fa diventar sfilati come nervi, poi
compongono butiro e specie per darli sapore: ed è grande e inestimabil
mercanzia per quel mare d'Alemagna. Le passare, per esser grandissime, partite
in pezzi le salano, e così sono buone (...). »
I veneziani, ospiti graditi e straordinariamente accuditi (alcuni trovano perfino moglie…),
restano a Rost per quattro mesi: il 15 maggio 1432 Pietro Querini e i
luogotenenti prendono posto su una barca diretta a Bergen, sbarcano a Trondheim
e quindi si imbarcano su una nave diretta a Londra dove saranno accolti dalla
ricca comunità veneziana. Da qui, a cavallo, raggiungeranno Venezia, passando
per Basilea.
Uomo accorto, Querini porta con sé alcuni esemplari di stoccafisso
e li presenta al Senato della Serenissima magnificandone le qualità: lunga conservazione,
proprietà nutritive eccellenti, ottimo sostituto della carne, perfetto per
lunghe missioni, sia di mare sia di terra. Ci vorrà un po’ di tempo ma
l’intuizione di Querini con il tempo si trasformerà in un successo, un grande
successo, di proporzioni allora inimmaginabili.
Pietro Querini tornò a Rost, da quelli che erano diventati
“amici”, per scambiare vino e spezie con stoccafisso. Ma questo non gli
bastava, voleva scoprire altre terre. Così, al comando della sua nave, lasciò
Lofoten per puntare ancora più a Nord. E sparì fra i ghiacci eterni, diventando
leggenda.
Un secolo dopo, nel dicembre 1563, il Concilio di Trento, emanando
le direttive per i cattolici, sancisce l’obbligo del “magro e digiuno” per
quasi 200 giorni e raccomanda lo stoccafisso come piatto magro per tutti i
mercoledì e i venerdì. E certamente per l’intera Quaresima. E’ la consacrazione
dello stoccafisso, con la certezza di una diffusione capillare.
Ma che strano pesce è lo stoccafisso?
La risposta è semplice: il merluzzo artico. Nome scientifico Gadus
Morhua., famiglia dei Gadidae, ordine dei Teleostei. Che, non a caso, è anche
detto “il pesce che vive due volte”.
Stoccafisso e Baccalà: ecco la metamorfosi del merluzzo, fuori
dall’acqua. Un solo pesce, due
metodi di conservazione propri di popoli ben differenti, quelli che abitano le
gelide terre del Nord e quelli che godono il calore del Sud. Due metodi che non
ne alterano le caratteristiche nutritive.
Stoccafisso è il
merluzzo che viene essiccato all’aria, al vento, alla pioggia, al sole,
appeso su bastoni posti su grandi rastrelliere, oggi come ai tempi di
Querini. E anche prima: infatti è,
questa, una tecnica messa a punto addirittura dai vichinghi.
Baccalà è il merluzzo che, appena pescato nelle acque del profondo
Nord, è decapitato, aperto, pulito e messo in barili sotto sale per circa tre
settimane. Variante: salatura e passaggio in tunnel per una settimana.
Il merluzzo artico norvegese, pesce predatore, regna nei “Grand
Banks”, la piattaforma continentale di 3500 kilometri quadrati, situata
nell’Atlantico Settentrionale, al largo di Terranova e delle coste del
Labrador. Più precisamente, della
parte occidentale, nella zona compresa tra la Groenlandia fino alla Carolina
del Nord, e della parte orientale con Mare di Norvegia fino all’Islanda e lo
Spitzbergen, Mare del Nord e Mare di Barentz. Nei Grand Banks la scarsa
profondità, variabile tra 25 e 100 metri, e l’incrocio tra la calda corrente
del Golfo e la fredda corrente del Labrador, che sollevano dal fondale le sostanze
nutrienti, ne fanno una delle zone più pescose al mondo.
Il merluzzo
non esiste nel Mar mediterraneo che non gli assicura un habitat adatto. Ci
sono, nel Mar Mediterraneo, altre specie della famiglia come il nasello
(Merluccius merluccius), che però nulla ha a che vedere con il merluzzo
nordico.
Identikit
del merluzzo artico
Il Gadus
Morhua può superare i 50 kg di peso e il metro e mezzo di lunghezza. Colore verdastro, leggermente maculato
sul dorso, linea bianca laterale lungo tutto il corpo.
Vive in branco nelle gelide acque dei mari del Nord e – un po’
come fanno i salmoni – quando raggiunge la maturità, intorno 6/7 anni, migra
lungo le coste della Norvegia per deporre le uova. E’ una specie
molto feconda e ciascun esemplare arriva a deporre dagli 8 ai 10 milioni di uova pelagiche
l'anno. Alcuni ci riescono a deporre le loro uova, altri sono catturati
appena prima e costituiscono il massimo desiderabile dai gourmet: provengono
dal mare di Barents, sono chiamati SKREI, e la pesca, severamente regolamentata,
ne è consentita solo tra gennaio e aprile.
Questi esemplari sono definiti “merluzzi innamorati” per via del
loro stato e il tipo di pesca è detto “di corsa” perché deve essere affrettato.
La polpa è bianca, succulenta, soda, più grassa di quella di un merluzzo
normale, dunque ha una morbidezza eccezionale.
E il nome?
Il nome
deriva probabilmente dalla cittadina norvegese di Stokke. Secondo alcuni però
potrebbe derivare dal norvegese stokkfisk
oppure dall'olandese antico stocvisch
- "pesce a bastone” -, secondo
altri dall'inglese stockfish, -"pesce
da stoccaggio" (scorta, approvvigionamento) -; altri ancora sostengono che
pure il termine inglese sia mutuato dall'olandese antico, con lo stesso
significato di "pesce bastone".
Nell'Italia
meridionale, luogo dove fu inizialmente introdotto dai normanni, viene chiamato
stocco o pesce stocco (piscistoccu)
ed è particolarmente legato alla città portuale di Messina.
Nel Veneto, ma anche in Friuli, lo stoccafisso si chiama “bacalà”. “Bacalà” con una “c” sola. Perché il “baccalà” (doppia “c”) ha un’altra storia e viene da un altro mondo.
Nota: In
questo post ci concentriamo sullo stoccafisso. Per il Baccalà l’appuntamento è a
breve, praticamente subito.
Preparare lo
stoccafisso
Lo stoccafisso, si è detto, è duro come un bastone e anche di più.
Dunque, per poterlo cucinare è indispensabile ammorbidirlo e reidratarlo: due
passaggi fondamentali per la riuscita di qualsiasi piatto.
· Quando si
compera una baffa (così si chiama il pesce intero) è opportuno chiedere in
pescheria se lo stoccafisso è già stato battuto. Dovrebbe esserlo ma, se non lo
fosse, bisogna armarsi di un pestello o martello di legno e batterlo per
ammorbidire le fibre.
· Segue l'ammollo, preceduto da una piccola ma importante operazione.
Prima di iniziare a bagnare lo stoccafisso,
vi suggeriamo di rimuovere il “budello”, ovvero la vescica natatoria del pesce.
Non è una pratica comune, è un accorgimento che permette di ottenere uno
stoccafisso più gustoso perchè rende la procedura di ammollo “meno contaminata”
e più pulita. Il “budello”, infatti, è la parte dello stoccafisso che contiene
la più alta concentrazione batterica ed è quindi la parte più “puzzolente”, che
potrebbe alterare il sapore finale del piatto. La vescica natatoria si trova
all’interno del pesce, è di colore nero ed è facilmente identificabile una
volta aperto il pesce a metà. Se intendete usare il “budello”, eseguite
comunque questo passaggio e ammollatelo in un contenitore a parte per poi
unirlo successivamente nella fase di cottura: è quanto avviene per lo
Stoccafisso in buridda, grande e classica ricetta della cucina ligure.
A seguire:
a) mettere lo stoccafisso in
un recipiente pieno di acqua fredda, coprendo interamente il volume del pesce,
e tenerlo al fresco (bene in frigorifero a circa +4°C)
b)
cambiare l’acqua dopo due ore, sciacquando accuratamente lo stocco. Porre
ancora al fresco
c)
rinnovare l’acqua ogni 8 ore per una durata complessiva di 36/48 ore (o più se
il pesce non risultasse sufficientemente morbido.
Finita l’ammollatura, lo stoccafisso deve essere
considerato come un pesce fresco e valgono pertanto le stesse modalità di
conservazione. Sebbene sia possibile conservarlo in congelatore dopo l’ammollo,
consigliamo di utilizzarlo subito.
A questo procedimento esistono alternative che semplificano
la vita.
Lo stoccafisso si può trovare già bagnato sui banchi delle
pescherie, dei supermercati, dei mercatini rionali e perciò se ne possono acquistare anche solo dei
tranci. Personalmente suggerisco
di passarlo ancora in acqua fredda corrente per qualche ora.
Esiste poi in commercio stoccafisso di eccellente qualità
già bagnato, congelato, con o senza pelle. A questo punto introduciamo il tema della qualità. Per il
congelato, il marchio che ci sentiamo di suggerire è HALVORS (prodotto e distribuito
da JC-Jolanda de Colò). Per quanto
riguarda lo stoccafisso secco, da anni e anni la qualità ricercata si chiama
RAGNO.
Infine, una precisazione sulle quantità. Uno stoccafisso secco va dai 60 agli 80
cm di lunghezza e dai 900 ai 1200 g di peso per gli esemplari grandi mentre per
i più piccoli dai 750 agli 800 g.
Dopo l’ammollo, sono recuperate (più o meno) le dimensioni
originali con raddoppio del volume e triplicazione del peso.
Per 4 persone, la quantità corretta prima dell’ammollo si
aggira tra i 400 e i 500 grammi.
Le ricette
Abbiamo dovuto scegliere: la quantità di ricette con
protagonista lo stoccafisso è di numero inimmaginabile. Così abbiamo fatto una
selezione (drastica) tenendo conto delle regioni in cui c’è un forte
radicamento di questo straordinario alimento.
Bacalà mantecato alla veneziana
Ricordando Pietro Querini
e il suo equipaggio
750 g stoccafisso secco - 500 g latte intero - 1500 g
acqua
1 l olio di semi di arachide - sale e pepe q.b
Dopo l’ammollo, rimuovere spine e
pelle, quindi mettere in una pentola con l’acqua e il latte, portare a bollore e, dopo aver regolato
al minimo la fiamma, far cuocere per 25 minuti al massimo. Lasciar raffreddare per almeno
mezz’ora. Scolare (conservando il liquido di cottura) e passare nel mixer tutta
la polpa, poi trasferirla nella planetaria con un po’ di olio di arachidi e
iniziare a montare aggiungendo un poco di liquido di cottura. Continuare alternando olio e liquido di
cottura (quest’ultimo solo se necessario per la morbidezza), fin quando l’olio
non sia terminato. Aggiustare di sale e pepe, amalgamando il composto con una
spatola per non farlo smontare.
Servire il bacalà con polenta,
cosparso di un po’ di erba cipollina.
La ricetta si deve allo chef
Daniele Zennaro ed è stata presentata al Milano Food & Wine
Festival del 2014. Il piatto è servito nello storico ristorante veneziano Vecio Fritolin.
Bacalà alla vicentina
1 kg stoccafisso secco – ½ l olio extravergine di
oliva –
250/300 g cipolle - 3 sarde sotto sale – 1/2 l latte fresco
1 manciata di farina bianca – 50 g grana grattugiato
1 ciuffo prezzemolo tritato – sale e pepe q.b.
Dopo l’ammollo aprire il pesce per
lungo, togliere lisca e spine. Tagliarlo a pezzi. Affettare finemente le
cipolle, rosolarle in un tegamino con un bicchiere d’olio, aggiungere le sarde
sotto sale(dissalate e disliscate, ndr) tagliate a pezzetti e, per ultimo, a
fuoco spento, unire il prezzemolo tritato. Infarinare leggermente i vari pezzi
di bacalà, irrorarli con una parte di soffritto, disporli uno accanto all’altro
in un tegame di coccio o alluminio sul cui fondo sarà stato messo un altro poco
di soffritto; ricoprire il pesce
il soffritto restante quindi aggiungere il latte, il grana grattugiato,
sale e pepe (attenzione al sale!). Unire l’olio fino a ricoprire tuti i pezzi
livellandoli. Cuocere a fuoco molto dolce per circa 4 ore e mezza, muovendo
ogni tanto il tegame in senso rotatorio, senza mai mescolare. Questa fase di
cottura, in termine vicentino, si chiama “pipare”.
Il baccalà alla vicentina è ottimo
dopo un riposo di 12 ore (ma anche di 24).
Questa ricetta è stata ritrovata e
convalidata in molte riunioni di studio dalla Confraternita del Bacalà
che ha sede istituzionale a Sandrigo. La Confraternita, tuttavia, riconosce che ci sono molte
varianti, come spesso accade nelle ricette che si tramandano. “Su un
punto sono tutti d’accordo: l’olio di cottura deve essere della migliore
qualità, abbondante, e il bacalà non deve mai essere rimescolato.
Stoccafisso accomodato
(Genova)
800 g di stoccafisso già ammollato – 500 g patate – 50 g
pinoli
20 olive nere taggiasche – 1 cipollina –1 spicchio d’
aglio
1 ciuffo prezzemolo – 1 cucchiaio pomodori secchi
1 cucchiaio concentrato di pomodoro
1 bicchiere vino bianco secco – olio extravergine di oliva
qb
Dopo averlo sbollentato, diliscate lo
stoccafisso e tagliatelo a pezzi. Sbucciate e tagliate a pezzettoni le patate.
Tritate e soffriggete lievemente in un bicchiere di olio extravergine di
oliva la cipolla, l’aglio, il
prezzemolo e i pinoli. Versate il vino bianco, i pomodori secchi e il
concentrato. Quando il vino è evaporato, aggiungete i pezzi di stoccafisso, le
patate (crude) e le olive intere. Salate e versate acqua calda a più riprese
fino a coprire il tutto e fino a cottura ultimata (circa mezz’ora).
La ricetta è della Trattoria da Jolanda, a Isoverde di Campomorone (Genova) ed è
segnalata nel Libro “Osterie d’Italia” di Slow Food. Lo stocche accomoddou a zeneise è il classico piatto del venerdì nelle
osterie liguri.
Brandcujun
Stoccafisso
mantecato alla sanremese
1 kg stoccafisso
bagnato – 1 kg patate - 1 cipolla
1 bicchiere di olio
extravergine di oliva
1 spicchio d’aglio - 1 limone (succo) –
prezzemolo
sale e pepe q.b.
Partendo da acqua fredda non salata cuocere lo stoccafisso a
fiamma dolce per 45/50 minuti; scolare tenendo da parte il liquido di cottura
che servirà per un’eventuale aggiunta alla preparazione e, la parte maggiore,
per cuocere le patate e la cipolla. Mentre questa cottura procede togliere la
pelle allo stocco e diliscando con grande attenzione: nessuna preoccupazione
se, con questa operazione il pesce va a pezzetti.
Preparare un battuto d’aglio e prezzemolo, unirlo all’olio, al
succo di limone, quindi salare e pepare.
Mettere stoccafisso, patate e cipolla in un mixer e sminuzzare a
colpi brevi fino a ottenere un composto “ruvido” nel quale si sentano frammenti
di pesce.
Amalgamare questo composto alla salsina preparata con il battuto
e, se necessario, allungare con l’acqua di cottura fino ad ottenere una
consistenza morbida.
Servire su fette di
pane tostato strofinate con aglio (se gradito).
Il termine Brandcujun o Brandcojon o Brand de cojun testimonia il collegamento con la Provenza tramite
la quale avvenivano le importazioni di stoccafisso.” Brandade” deriva da “branler” o “brandir”, cioè scuotere.
In sostanza, il termine avrebbe un’origine antica, nata a bordo dei pescherecci
dove l’assemblaggio degli ingredienti – stoccafisso, patate, cipolla… -
avveniva mediante lo scuotimento energico impresso dai marinai alla pentola
tenuta fra le gambe. Quindi se “brandade” è il frutto dello scuotimento, cosa
significhi “cujun” non è difficile da immaginare!
Stoccafisso all’Anconetana
1 kg. di Stoccafisso già bagnato - 5 acciughe - 3 carote
1
cipolla di media grandezza - 2 coste di sedano verde
3 rametti di rosmarino –50 g di
capperi dissalati
1/3 di litro di vino Verdicchio dei Castelli di Jesi
1 peperoncino (facoltativo) – 100 g di olive nere
1 kg di pomodori a grappolo maturi - 1 kg di patate
1/2 litro di olio extra vergine di oliva - sale q.b.
Pulire lo Stoccafisso togliendo la
spina centrale, tagliarlo a pezzi e predisporli in una teglia dal bordo alto.
Preparare un battuto finissimo con sedano, carota, cipolla, capperi, acciughe e rosmarino e con
la metà di questo trito condire lo Stoccafisso predisposto precedentemente in
teglia, aggiungendo sale q.b. e circa mezzo litro di olio extra vergine di
oliva.
Tagliare le patate a spicchi di media grandezza e metterle sopra lo strato di
Stoccafisso fino a coprirlo totalmente.
Condire il tutto con l’altra metà del trito rimasto, poco peperoncino tagliato
sottile (facoltativo), sale, pomodori a pezzi qua e la, il vino Verdicchio,
acqua fredda fino a coprire il tutto e olive nere.
Lasciarlo cuocere a fuoco lento per circa 2 ore (30 min. sul gas e 1h e 30min.
al forno a 130/140 gradi circa). Il consiglio è di consumare questo semplice
piatto tipico 12 ore dopo la cottura.
La ricetta classica prevedeva di
mettere uno strato di canne di bambù tra il fondo della teglia e lo Stoccafisso
per evitare che il preparato si attaccasse. In alternativa si può usare una
griglia.
La ricetta è codificata
dall’Accademia dello stoccafisso all’anconitana. Un’Accademia nata sul filo
della storia: le navi che da Ancona arrivavano alle città anseatiche e sovente
risalivano i fiordi della Norvegia, per non tornare vuote importavano grandi
quantità di stoccafisso soprattutto dalle isole Lofoten. Così è nato un piatto
che è diventato simbolo gastronomico della città.
Piscistoccu agghiotta a la missinisa
1 Kg di stoccafisso ammollato – 300 g di pomodori
freschi e maturi - 200 g di olive bianche in salamoia
100 g di capperi - 50 g di gambi di sedano con foglie
50 g di carote - 200 g di cipolla
150 g di pere 'mputiri (pere da cuocere) o patate
50 g di conserva di pomodoro - 30 g di pinoli
30 g di uva passolina – 1 manciata di farina
olio extravergine di qb - sale e peperoncino
Sgocciolare e disliscare con cura lo stocco, tagliarlo a
pezzi quadri mantenendo la pelle, asciugarlo
bene e infarinarlo leggermente. In un capace e largo tegame di terraglia o
alluminio (dovrebbe contenere il pesce in unico strato) rosolare in olio la
cipolla affettata sottile, i gambi di sedano a rondelle, prima sbollentati e privati
di tutti i filamenti e le carote
tritate, senza far scurire il soffritto; aggiungere i pezzi di stocco
infarinati rigirandoli delicatamente per dorarli su tutte le parti ma
laccomodandoli – alla fine di questo breve procedimento – appoggiati con la
pelle verso il fondo del tegame; unire i pomodori freschi a pezzetti e lasciar
sobbollire per qualche minuto a fiamma dolce; unire poi i tocchetti di patate o
pere (sbucciate). Sciogliere in acqua calda due o tre cucchiaini di conserva di pomodoro e versarla sul
pesce in quantità tale da coprirlo. Cuocere a fiamma bassa per una mezzora,
aggiungere l'uva passa, prima ammorbidita in acqua tiepida, i pinoli, sale e
pepe. Proseguire la cottura per un paio d’ore senza mai rigirare la
preparazione. E’ però utile scuotere il tegame con movimento circolare per
evitare che la farina faccia da collante sul fondo. Trascorse queste due ore
(più o meno) è la volta dei capperi, delle olive bianche e delle foglioline
verdi del sedano. Ancora una buona mezz'ora di cottura e, quando il sugo
diventa sciroppo, le patate (o le pere) sono morbide e il pesce è in via di
sfaldamento, lo stocco è pronto. Prima di servire irrorare con un filo di olio
crudo.
Questa ricetta è frutto di ricerca e mediazione fra le
decine di proposte scritte e/o orali
in circolazione. Le diversità sono soprattutto rappresentate dall’alternativa
tra l’uso delle pere – di tradizione – o la loro sostituzione con le patate,
come accade sempre più sovente. Allo stesso modo c’è chi mantiene l'uva passa e i pinoli e chi invece ne fa a meno. Questione
di gusti e di modi. Una cosa è certa: l’eliminazione di alcuni ingredienti non
può che appiattire i sapori, rendendoli tutti più simili l’uno all’altro, lungo
l’intero stivale.
Grazie alle fonti
www.wikipedia.it - www.alimentipedia.it - www.taccuinistorici.it - www.circolopolare.com - www.gustosamete.com - www.pescamare.net - www.scmncamogli.org - www.tagliapietra.com - http://veciofritolin.it - www.arsvitae.it - http://prodottipolesine.it - www.accademiasitalianacucina.it - http://baccalaallavicentina.it - httpp://visitancona.com -www.jolandadecolo.it - www.cataniatradizioni.it