Ricette

venerdì 29 maggio 2015

Dante compie 750 anni. Per lui una torta (da) Paradiso





In un giorno imprecisato della fine di maggio di 750 anni  fa, nasceva a Firenze un bimbo che sarebbe stato battezzato con il nome "Durante di Alighiero degli Alighieri": Dante.  Dante, il Sommo Poeta, il fustigatore di costumi, il politico, l’ambasciatore. Dante, il padre della lingua italiana. Dante, il mito che resiste nei secoli, in tutto il mondo. Su di lui, sulla sua opera più complessa – la Divina Commedia – sono stati scritti volumi e volumi, nelle principali lingue del mondo.  Ogni parola è stata analizzata, valutata, soppesata. Ogni parola conta quanto quella che precede o segue. 






Questo blog ricorda quel maggio 1265 riportando un bellissimo sonetto scritto in età giovanile.  E offrendo al Poeta dei poeti una torta leggera e deliziosa: una torta da Paradiso. Magari affiancandola con una crema pasticciera. Non s’incorrerà certo negli strali che Dante lancia nel Purgatorio per bollare i golosi. Ma solo quelli  che si nutrono smodatamente. 




“Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio,
sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ‘l disio.
E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:
e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuno di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.”

(Rime, sonetto giovanile, 14 endecasillabi)


Una storia dolce

Anche la Torta Paradiso ha una sua piccola storia e delle leggende. Il filo dei ricordi ci riporta al 1878,  a Pavia,  dove “regnava” un pasticciere di vaglio, Enrico Vigoni, cui è attribuita la confezione di questa torta squisita e aerea.  Tanto da far esclamare a una nobildonna: …. “ma è da Paradiso!”. Ed ecco che questo diventò il nome della torta. 




Quanto alle leggende, eccone una. Intrigante.
Attribuisce a un fratino della Certosa la confezione di una torta la cui ricetta gli sarebbe stata data da una giovane sposa incontrata nelle sue peregrinazioni alla ricerca di erbe medicinali. In una di quelle occasoni, la giovane sposa gli avrebbe offerto una fetta di torta epoi, visto l'entusiasmo, gli avrebbe rivelato anche la ricetta. Ricostruzione forse fantasiosa ma non improbabile perché, com’è noto, la cucina dei Conventi ha fatto storia. Ovviamente, la torta era … paradisiaca.





Nella versione originale, la Torta Paradiso non prevedeva il lievito ma – come si dice – solo “olio di gomito” e grande pazienza per montare all’infinito (!) burro e  zucchero e uova, al fine di incorporare tutta l’aria possibile, che agirà poi da lievito.
Oggi è diventata abitudine usare “comunque” il lievito, ricordando tuttavia che, data la grande quantità di burro necessaria per la Torta Paradiso, il lievito non può e non deve sostituire una battitura adeguata, che sempre più si affida a robot da cucina, piccoli e grandi. L’importante è che ci siano le fruste. E’ anche opportuno tenere presente che il lievito non deve lasciare retrogusto e, per questo scopo, particolarmente adatto appare il cremor tartaro, base di molti preparati industriali in commercio. 


Nota: Una precisazione. Della Torta Paradiso questo blog ha già dato una ricetta. Quella di oggi è un’altra ancora, frutto di ricerche accurate e…. mediazioni… la ricetta originale resta segreta, di proprietà degli eredi del pasticciere Vigoni.



Torta Paradiso

Burro 250 g – zucchero a velo 250 g – tuorli uovo 100 g e uova intere sgusciate 150 g – farina “0” 125 g – fecola patate 125 g  - sale 1 pizzico –limone  - lievito 8/10 g -  zucchero vaniglinato  per decorazione



Pre-riscaldare il forno a 180 °C. Togliere il burro dal frigorifero un’oretta prima dell’utilizzo affinché si ammorbidisca. In un recipiente adeguato a contenere tutti gli ingredienti, tagliare il burro a pezzetti e iniziare a lavorarlo con un cucchiaio di legno dopo aver aggiunto la scorza di limone grattugiata; unire poi, poco per volta, lo zucchero a velo, sempre lavorando il burro fin quando non si sarà ottenuta una crema spumosa. Battere con una frusta i rossi d’uovo e iniziare a unirli (un cucchiaio per volta)  alla crema di burro lavorando il tutto ininterrottamente per consentirne un perfetto assorbimento; aggiungere le uova intere, sempre battute e sempre a piccole dosi.  Infine, la farina, la fecola e il lievito opportunamente miscelati.  Quest’ultimo passaggio deve essere rapido e con movimentio rotatori dal bassp verso l’alto, per non disperdere l’aria assorbita dalla massa. massa già lavorata.
Versare in uno stampo imburrato e infarinato, infornare per 40/45 minuti.
Sfornare, lasciar raffreddare e cospargere senza risparmio di zucchero a velo vaniglinato.
Dosi per 8/10 persone, tortiera con diametro 26 cm. 





Crema pasticciera

Latte 1 l – amido di mais 80 g - zucchero 200 g - tuorli 200 g




Battere i tuorli con zucchero Maizena e un po’ di latte freddo. Aggiungere il restante latte preventivamente scaldato. Mettere su fuoco dolce mescolando senza sosta per evitare la formazione di grumi durante l’addensamento. Quando è raggiunta la consistenza desiderata, spegnere e aromatizzare con qualche goccia di estratto di vaniglia Bourbon. Per conservare questa crema, in attesa di servirla, coprire con una pellicola posata direttamente sulla crema stessa


Grazie a
I libri: “La scienza della pasticceria” di Dario Bressanini (Gribaudo, 2014) (www.feltrinellieditore.it/gribaudo)
                            “Il ghiottone lombardo”, Carlo Steiner (Bramante Editrice, 1964)

giovedì 7 maggio 2015

Arancine o arancini? Una storia siciliana. Di gusto.




Quello che noi chiamiamo col nome di rosa, anche chiamato con un nome diverso conserverebbe il suo dolce profumo”.
(William Shakespeare, Romeo e Giulietta)

Shakespeare, perché scomodarlo?

Perché un nome può scatenare una guerra, come ha raccontato il massimo drammaturgo inglese. Ma quella di cui parliamo ora è fatta solo di scaramucce verbali. E però arriva da lontano nel tempo.  E’, per dirla brevemente, una rivendicazione di origine e di paternità. E’ una storia siciliana. Eccola.

Arancine o arancini?


Dove sono nate quelle belle pallotte di riso, invitanti e ammiccanti dalle friggitorie di ogni angolo di strada della Sicilia, dorate e croccanti all’apparenza ma morbide e profumate e con un gran cuore che assicura meraviglie al palato?

Per Sergio, amico nisseno, (Caltanissetta è spartiacque tra Sicilia Occidentale e Sicilia Orientale) non ci sono dubbi sul genere: femminile. Arancine. Proprio come si dice a Palermo e in tutta la parte occidentale dell’isola. D’altra parte assomigliano alle arance, tonde tonde. E, ce ne fosse bisogno, la conferma viene dall’Accademia della Crusca: “L’arancina ha una forma rotonda simile ad una arancia. Di cui la Sicilia è ricca e dalla quale prende il nome. E’ questa la forma corretta perché arancina deriva da arancia ed è femminile”.





Tonde? Rotonde? Arancine? Quando mai.  A Catania i dubbi non esistono: arancino, arancini. Sostantivo maschile. E forma a cono, come quella del vulcano. Si taglia la punta e fuoriesce un vapore ricco di profumi e umori da far venire l’acquolina in bocca. Inoltre – si dice sempre a Catania - nei dizionari dell’Ottocento si parla di “aranciu” e “melaranciu”, quali frutti dell’albero omonimo. E di una persona un po’ in carne si dice scherzosamente: “Mi pari n’arancinu cu i pedi”… Tra l’altro, a Catania la forma varia a seconda del ripieno: base piatta e punta a ogiva con il sugo di carne; tondeggiante con il burro; ovoidale con pollo o spinaci. 



Quanto alla nascita, si parte dagli arabi che conquistarono l’Isola nel IX secolo portando riso, zafferano e spezie diverse, melanzana e pinoli e agrodolce – e molto altro ancora – per arrivare ai cuochi delle case imperiali, capostipiti gli sconosciuti cucinieri  che servivano Federico II di Svevia, nipote di Federico Barbarossa.  Si era agli albori del 1200 e proprio in quelle cucine si iniziò ad appollottolare il riso che, trasformato in singole porzioni, poteva essere trasportato per esigenze militari e di trasferimenti. 

Poi ci sono i nomi che hanno fatto la storia della cucina, dal Maestro Martino (è il tempo di Lorenzo il Magnifico, di Leonardo da Vinci), autore del primo ricettario sistematico al mondo, passando per Vincenzo Corrado (è del 1778 il suo Cuoco Galante) per arrivare ai tempi moderni con una ricetta del 1882 contenuta nel “Cuciniere all’uso moderno” di un Anonimo. Alla fine non si contano i contributi che hanno cambiato forma e sapore di arancine/arancini. Fra questi, importanti, è d’obbligo annoverare quelli dei monaci, la cui cucina era sovente di altissimo livello tanto da poter sostenere che l’arte culinaria europea e la relativa educazione alla tavola, abbiano avuto origine tra le mura dei monasteri e delle abbazie medioevali.





“In città la cucina dei Benedettini era passata in proverbio; il timballo di maccheroni con la crosta di pasta frolla, le arancine di riso grosse ciascuna come un mellone, le olive imbottite, i crespelli melati erano piatti che nessun altro cuoco sapeva lavorare; e pei gelati, per lo spumone, per la cassata gelata, i Padri avevano chiamato apposta da Napoli don Tino, il giovane del caffè di Benvenuto. Di tutta quella roba se ne faceva poi tanta, che ne mandavano in regali alle famiglie dei Padri e dei novizi, e i camerieri, rivendendo gli avanzi, ci ripigliavano giornalmente quando quattro e quando sei tarì ciascuno.” (Federico De Roberto, I Viceré, 1894) 
E' questa la prima citazione letteraria delle arancine.



Ma c’è un altro luogo-simbolo delle arancine, molto più popolare. E’ il traghetto che collega la Sicilia al Continente. 






“All’improvviso, immerso nel mare e nella vastità dell’orizzonte, il profumo del caffè si annida e accarezza l’olfatto: E ti prende una voglia di gustarlo e ti metti alla ricerca del bar, nascosto tra mille sale e salette, come se cercassi la tua oasi di salvezza. Alla fine lo trovi e mentre gusti il sapore eccitante del caffè sia lo sguardo che l’olfatto vengono colpiti da un vassoio posto sul bancale del bar: sono gli arancini che trionfano maestosi e invitanti come descritti nelle pagine di “Montalbano” di Camilleri.” (dal sito Costierabarocca.it, “Traghettare nello stretto i Messina”)







E ora la parola alla cuoca, Donna Albuccia.  Milanese di nascita e siciliana per amore, è dotata di talento nonché di ironia. Raccontando delle “sue” arancine (al femminile!), che, come tali, sono rotonde, si lascia scappare una battuta: “Lo so, l’Adelina, la domestica di Montalbano, fa dei sublimi arancini e per di più a trullo, con la punta. Io, purtroppo, pur essendo cuoca domestica (o addomesticata ?) posso fare solo le arancine e perciò mi accontento di quelle tonde”. 






LA RICETTA

NB. In questa ricetta, dedicare particolare attenzione a ingredienti e metodo di frittura, alternativi ai tradizionali, scelti per soddisfare anche il palato di chi sia intollerante al glutine. Con ottimi risultati.




Tre lavorazioni separate: prima il sugo, poi il riso, infine pastella e pangrattato

Con le quantità indicate si preparano da 16 a 18 arancine



Sugo di carne e piselli





250 gr di carne trita non magrissima - mezza cipolla media - 20 gr di funghi secchi ammollati

1 tazza da the di piselli (anche surgelati) - 1 scatola di pelati da 400 g

1/4 di bicchiere di vino rosso - sale e pepe




Tritare la cipolla in modo che a cottura ultimata sia completamente sfatta. Farla rosolare appena-appena in olio extra vergine di oliva; aggiungere la carne e farla rosolare. Sfumare con il vino, salare e pepare. Aggiungere i funghi tritati e l’acqua di ammollo filtrata. Quando l’acqua sarà evaporata aggiungere i piselli, precedentemente portati a mezza cottura, e la scatola di pelati passati al setaccio.  Quando l’acqua dei pelati sarà evaporata e i piselli saranno cotti, il sugo è pronto. Dovrà risultare morbido ma consistente. Se necessario usare un addensante (farina, fecola, ecc.) e comunque (se possibile) prepararlo il giorno prima in modo che possa stare in frigorifero una notte e, raffreddandosi, risulti il più denso possibile. Un sugo acquoso “allagherebbe” l’arancina, rovinandone anche la frittura.




Arancine

1 kg riso – 2.5 l di acqua – 100 g burro – 3 bustine zafferano

5 foglie d’alloro – 2 dadi  -  sale e pepe



NB: Per il riso, scegliere una varietà a chicco grosso e buon contenuto di amido. Indicativamente, Arborio, Vialone, Bald0.



Mettere sul fuoco l’acqua, il burro e tutti gli altri ingredienti, tranne il riso. Quando il burro sarà sciolto e l’acqua bollirà, aggiungere il riso in una sola volta SENZA MESCOLARE, abbassare la fiamma al minimo e coprire. Dopo 15 / 18 /20 minuti (il tempo di cottura dipende dal riso utilizzato) l’acqua sarà stata assorbita completamente o quasi. Scolare il riso,  distribuirlo in una grande teglia (io ho usato la leccarda) per lasciarlo raffreddare, coprendolo con della pellicola per evitare che si formi la crosticina sulla superficie. Quindi procedere alla confezione delle arancine. Bagnarsi la punta delle dita con acqua e formare con il riso una palla; quindi, con due dita scavare il centro dell’arancina, introdurvi un cucchiaino abbondante di sugo, due dadini di mozzarella e coprire con altro riso a formare un coperchio. Sempre con le mani umide compattare ancora un poco, anche per supplire all’ assenza di uova.


Frittura

Farina 00 400 g – acqua q.b.– sale – pangrattato 
 olio di semi di arachide

oppure

farina senza glutine per besciamella o farina di riso 
o pangrattato senza glutine


Preparare una pastella con acqua, farina e sale, tipo tempura: deve essere abbastanza consistente, fluida ma non liquida un po’ come potrebbe essere una besciamella. Con questa pastella “accarezzare” con le mani ogni arancina fino a ricoprirla completamente, poi appoggiarla su una gratella affinché si scarichi l’eventuale eccesso di copertura. Terminata quest’operazione, passare le arancine nel pangrattato e friggerle in abbondante olio di semi di arachide. 




In alternativa, si possono usare tutti i prodotti naturalmente senza glutine (farina di riso e preparato per impanare sempre di riso) o deglutinati (farina e pangrattato). Con la pastella il risultato sarà comunque eccellente: le arancine saranno croccanti e non unte; manterranno però un dorato chiaro, delicato.

NB. In commercio si trovano preparazioni per pastella sia con glutine sia senza.





E l’Adelina di Montalbano? E’ stata citata, è giusto darle lo spazio che merita. La ricetta è tratta dal libro “Le ricette di Montalbano” di Andrea Camilleri.






Adelina ci metteva due jornate sane sane a pripararli. Ne sapeva, a memoria, la ricetta. Il giorno avanti si fa un aggrassato [sugo, ndr] di vitellone e di maiale in parti uguali che deve còciri a foco lentissimo per ore e ore con cipolla, pummadoro, sedano, prezzemolo e basilico. Il giorno appresso si pripara un risotto, quello che chiamano alla milanìsa, (senza zaffirano, pi carità!), lo si versa sopra a una tavola, ci si impastano le ova e lo si fa rifriddàre.

Intanto si còcino i pisellini, si fa una besciamella, si riducono a pezzettini ‘na poco di fette di salame e si fa tutta una composta con la carne aggrassata, triturata a mano con la mezzaluna (nenti frullatore, pi carità di Dio!). Il suco della carne s’ammisca col risotto. A questo punto si piglia canticchia [un po’] di risotto, s’assistema nel palmo d’una mano fatta a conca, ci si mette dentro quanto un cucchiaio di composta e si copre con dell’altro riso a formare una bella palla.

Ogni palla la si fa rotolare nella farina, poi si passa nel bianco d’ovo e nel pane grattato. Doppo, tutti gli arancini s’infilano in una padeddra d’oglio bollente e si fanno friggere fino a quando pigliano un colore d’oro vecchio. Si lasciano scolare sulla carta. E alla fine, ringraziannu u Signiruzzu, si mangiano!”.








Grazie a