Ricette

martedì 23 febbraio 2016

Renoir, la joie de vivre e...la bouillabaisse





Come un turacciolo. 
Nella vita bisogna abbandonarsi come un turacciolo alla corrente di un ruscello.
Pierre-Auguste Renoir



“Oggi, 25 febbraio 1841, alle tre del pomeriggio, è comparso dinanzi a noi, assessore rappresentante del Sindaco della Città di Limoges, Léonard Renoir, sarto, di anni 41, residente in boulevard Sainte-Catherine, il quale ci ha presentato un bambino di sesso maschile, nato a casa sua questa mattina alle sei, figlio del comparente e di Marguerite Merlet, sua moglie, di anni 33, cui sono stati imposti i nomi di Pierre-Auguste….”.  



Limoges 


Era nato, sesto di sette figli, il pittore della joie de vivre, della rivoluzione impressionista. I suoi genitori erano poveri eppure il nonno, François Renoir, affermava di essere nobile di nascita e precisava che il cognome gli era stato dato da uno zoccolaio che l’aveva raccolto infante. Ma, fra nobiltà presunta e povertà, l‘infanzia di Pierre-Auguste fu felice.




Parigi: la casa di Montmartre ora museo


Nato nel Limousin, parigino dall’infanzia, Renoir  - così sarà sempre chiamato, semplicemente - amava il Midi e fu felice a Cagnes-sur-Mer così come il grande amico Cézanne, nato a Aix-en-Provence,  amò intensamente l’Estaque,  allora villaggio di pescatori a ridosso di Marsiglia. 




Cagnes-sur-mer: Les Collettes

Jean Renoir, secondogenito del pittore, raffinato regista entrato nel Gotha della cinematografia mondiale, qualche anno fa ha scritto un libro appassionato per raccontare di quel papà semplice e straordinario che, con la sua pittura “diversa”, anticonvenzionale, aveva fatto irruzione in un’epoca “tradizionale” e aveva dovuto farsi strada fra diffidenza e ostilità;  ha raccontato delle modelle e fra queste, adoranti, la bellissima moglie Aline, a sua volta adorata; delle poche cose che gli servivano per dipingere, della sua modestia, dei tanti amici con cui aveva diviso anche la fame; dei galleristi  intelligenti, acuti,  “coraggiosi” - esattamente tre - diventati ben presto famiglia; della capacità di donare di Renoir; di come le sue tele furono rifiutate, così come quelle dei suoi compagni di fede pittorica. Ha raccontato come suo padre fosse amareggiato dal fatto che persino il dipinto che ben presto sarebbe diventato “cult” fosse stato respinto, dai critici, dal pubblico e dalle istituzioni. 





Scriveva Pierre Wolf su “Le Figaro”:
“Rue Peletier è in disgrazia. Dopo l’incendio dell’Opéra, un nuovo disastro si sta abbattendo sul quartiere. Da Durand-Ruel si è aperta una mostra che dicono sia di pittura. Il passante ignaro entra, attirato dai drappi che adornano la facciata, e ai suoi occhi spaventati si offre uno spettacolo crudele. Cinque o sei alienati, fra cui una donna e un gruppo di disgraziati colpiti dalla follia dell’ambizione, vi si sono dati appuntamento per esporre le loro opere”…


Camille Pissarro: Paesaggio a Chaponval

..”Ci sono persone che scoppiano a ridere davanti a cose simili. A me, invece, si stringe il cuore.” …”Spaventoso spettacolo della vanità umana che giunge fino alla demenza. Andate a far capire al signor Pissarro che gli alberi non sono violetti, che il cielo non è d’un color burro fresco, che in nessun paese si vedono le cose che egli dipinge e che nessuna intelligenza può accedere a simili traviamenti!”  (….) Tentate dunque di spiegare al signor Renoir che il busto di una donna non è un ammasso di carne in decomposizione, con delle macchie di un verde violaceo che in un cadavere denotano lo stato di completa putrefazione!”(…)


Renoir: Le bagnanti



Se questo era il clima, non c’è da sorprendersi se la fiducia vacillava. Per fortuna, Oltreoceano, qualcuno aveva maggior intuito di quanto non ne avessero i curatori del Louvre e mentre Parigi esibiva “pollice verso”, a New York la nuova pittura veniva salutata con grande interesse. Grazie anche, se non soprattutto a quel geniale gallerista di nome Paul Durand-Ruel, che sarebbe diventato amico fraterno di Renoir.

“Le déjeuner des canotiers” fu acquistato dagli americani e ora fa parte della Collezione Phillips a Washington. E per Renoir fu il recupero della fiducia.





“Mio padre aveva qualcosa di un vecchio arabo e molto di un contadino francese, con la differenza che la sua pelle, sempre protetta dal sole per la necessità di tenere la tela al riparo dai riflessi ingannatori, era rimasta chiara come quella di un adolescente”.
“Quello che colpiva gli estranei che lo incontravano per la prima volta erano gli occhi e le mani. Gli occhi erano di un marrone chiaro, tendente al giallo; aveva una vista acutissima. (…) Quanto all’espressione del suo sguardo, immaginatevi un misto di ironia e tenerezza, di scherzo e di voluttà.  Sembrava che i suoi occhi ridessero sempre, che scorgessero anzitutto il lato divertente delle cose; ma era un sorriso affettuoso, buono. O forse si trattava di una maschera; infatti era estremamente pudico e non voleva che il prossimo si accorgesse dell’emozione, simile a quella che altri uomini provano nel toccare o nell’accarezzare, che lo assaliva al solo guardare i fiori, le donne o le nuvole in cielo”. (…)
Aveva delle mani incredibilmente piccole, quasi da signora. Ma, ancora giovane, era stato colpito dall’artrite reumatoide, sofferenza fisica e sfida in pittura. “Aveva le mani deformate in maniera spaventosa; i reumatismi avevano fatto cedere le articolazioni, ripiegando il pollice verso il palmo e le altre dita verso il polso.  I visitatori non abituati a quella menomazione non riuscivano a staccarne gli occhi; la reazione e il pensiero che non osavano formulare era questo: “Non è possibile.  Con delle mani simili non può dipingere questi quadri; c’è sotto un mistero!”. Il mistero era Renoir stesso …”



Renoir a tavola


Renoir: Il pranzo dei canottieri


Mangiava poco, Renoir, e però si appassionava alle “ghiottonerie”. E l’attenta e innamorata moglie Aline imparò a cucinare prendendo lezioni dalla suocera e dallo stesso Renoir. 

Racconta Jean Renoir: “Le cene intime con conversatori come Lestringuez, Mallarmé, Théodore de Wyzewa, Zola, Alphonse Daudet, Catulle Mendès, Odile Redon, Claude Monet, Verlaine, Rimbaud, Villiers de l’Isle-Adam, Frantz Jourdain, Edmond Renoir e altre amicizie permanenti o passeggere di suo marito, le insegnarono a tacere. Non potendo opporre le sue conoscenze in fatto di vigneti (era nata nella regione dello Champagne, ndr) ai paradossi brillanti dei suoi commensali, decise di rispondere con la qualità dei suoi piatti.”
Le sue bouillabaisse sono diventate famose. Così come il ragoût di montone, il pollo fritto con i funghi che sostituiva il bollito quando i soldi scarseggiavano, i pomodori farciti.  A tavola, in qualunque parte della Francia fossero, c’era sempre un posto per gli amici e i conoscenti. D’altra parte c’era reciprocità, una specie di comunione degli alloggi, come la definisce Jean Renoir. “Se desiderava dipingere in campagna, mio padre trovava del tutto naturale piombare in casa Gallimard in Normandia, da Berthe Morizot a Mézy o da Cézanne al Jas de Bouffan e di mettersi lì a dipingere. Da parte sua, lasciava volentieri i l suo studio a Jeanne Baudot, che se ne serviva quando eravamo in viaggio. Prestava di continuo il suo appartamento agli amici”.

Ricorda ancora, Jean: “All’infuori della mia bellezza, che lei era la sola a riconoscere, Gabrielle (cugina di Aline e governante, ndr) si ricordava che il giorno della mia nascita mia madre aveva chiesto alla signora Mathieu di prepararle dei pomodori al forno secondo una ricetta avuta da Cezanne.  “Soltanto –le aveva detto – siate un po’ più generosa con l’olio d’oliva”. 




Le regole di Madame Renoir



Madame Renoir, che raccoglieva ricette un po’ovunque  e soprattutto da Marie Corot, aveva messo a punto una serie di regole ferree da rispettare in cucina. Eccone alcune:


1)   Non mettere mai in acqua i legumi freschi. I piselli, ad esempio, devono essere cotti senza una goccia d’acqua. Qualche foglia di lattuga fornisce l’umidità sufficiente perché la casseruola non si spacchi.
2)   Fare attenzione alla cottura della carne. I francesi arrostiscono troppo a lungo manzo e agnello, così come fanno gli inglesi, i tedeschi e gli americani. A casa Renoir il tempo di cottura di un pezzo di manzo o di un cosciotto d’agnello era di dodici minuti per ogni mezzo chilo. Rigorosamente.
3)   Evitare di far cuocere gli arrosti in forno. L’umidità che viene fuori dalla carne ne fa un bollito o quasi. Lo spiedo dà risultati migliori perché il pezzo di carne è a contatto dell’aria, diventa meno molle e consente alle tossine di evaporare.
4)   Non tentare di spremere le cose fino in fondo; bisogna saper sprecare.


La ricetta della bouillabaisse

1895: il sindaco dell’Estaque “regala” a Renoir e Cézanne la ricetta della Bouillabaisse.  E noi ne raccontiamo la storia.






La bouillabaisse, ha origini greche che risalgono al VII secolo AC, quando venne fondata Marsiglia. Allora era un semplice ragoût di pesce, chiamato Kakavia ed era confezionato con quanto restava ai pescatori di pesce invenduto. Nella mitologia romana, era la zuppa che Venere aveva servito a Vulcano per quietarlo e indurlo ad addormentarsi.  Scopo non dichiarato ma (si dice) raggiunto: andarsene poi a folleggiare con Marte. 

Nel 1980 è nata la carte della bouillabaisse che prevede un minimo di 4 varietà di pesce, e fra l'altro, di rigore, la buccia d'arancia essiccata.




Alfred Capus, giornalista, drammaturgo, scrittore  nativo di Aix-en-Provence come Cézanne e praticamente coetaeo di Renoir essendo nato nel 1857, ha dato della bouillabasse una splendida definizione: "C'est du poisson avec du soleil". Pesce e sole i due ingredienti fondamentali. 






 “Si tratta di una ricetta classica: pesci di scoglio rosolati in olio d’oliva con cipolle e pomodori. Quindi acqua calda e molto aglio. L’aglio non deve mai essere rosolato. Aggiungere gli odori. I pesci e i crostacei vengono messi a lessare quando il “fondo” è cotto. Ci vogliono gli scorfani. Lo zafferano solo in ultimo. La zuppa, dopo essere stata passata, si versa su delle fette di pane arrostito e sfregato d’aglio. Niente salsa che nasconda il gusto delicato dei pesci di scoglio e che è un’invenzione delle trattorie d’infimo ordine.”



Ma ecco  la ricetta integrale proposta da “La cuisinière provençale”, manuale di  Jean-Baptiste Reboul, chef cuisinier, pubblicato a Marsiglia nel 1897 e divenuto subito “testo sacro”.

Raccomandazione: “Una bouillabaisse, per essere servita perfettamente secondo le regole di Marsiglia, deve prevedere almeno 7/8 commensali. Ecco perché: poiché per la sua preparazione bisogna utilizzare una grande varietà di pesci di scoglio è necessario cucinarne molti per poter inserire il maggior numero possibile di varietà.
Molti di questi pesci hanno un gusto particolare, un profumo che è proprio. Ed è dalla combinazione dei differenti gusti che dipende il successo del piatto.





I pesci da scegliere: aragosta, scorfano, pesce cappone o gallinella,  tracina, tordo,  sanpietro,  rana pescatrice,  grongo, nasello, spigola, granchio, etc.. Squamare e svuotare. Tagliare in pezzi e dividere su due piatti. Da una parte i pesci a carne ferma: aragosta,  scorfano, tracina, pesce cappone,  rana pescatrice, granchio; dall'altra il pesce a carne delicata: spigola, sanpietro, tordo, nasello. 
Mettere in una casseruola 3 cipolle affettate, 4 spicchi d’aglio schiacciati, 2 pomodori tritati (togliere prima buccia e semi), un rametto di timo, altrettanto di finocchio, prezzemolo, una foglia d’alloro, un pezzetto di scorza d’arancia;  aggiungere i pesci a carne ferma, distribuire uniformemente mezzo bicchiere d’olio, bagnare con acqua bollente fino a coprire il tutto.  Portare a bollore a fuoco vivo e dopo cique minuti aggiungere il pesce tenero, come la spigola, il tordo, etc. . Continuare la cottura a fiamma alta per altri cinque minuti.

Togliere dal fuoco, filtrare il liquido su fette di pane alte 1 centimetro e mezzo, sistemate in un piatto fondo. Aggiustare il pesce in un altro piatto e cospargere di prezzemolo tritato.
Uno dei punti importanti nella preparazione di questa Bouillabaisse è la cottura a fuoco vivace; questo fa sì che l’olio si amalgami bene con il brodo formando un succo perfettamente legato; altrimenti l’olio si separerebbe dal liquido e affiorerebbe in superficie, il che non risulterebbe gradevole al palato.
Ci siamo un po’ dilungati nella spiegazione, ma era necessario: su dieci libri di cucina che propongono questa ricetta, nove sono imprecisi; è inammissibile, ad esempio, che vi si dica di mettere nella casseruola tutto il pesce contemporaneamente e di farlo cuocere a fuoco forte per 15 minuti.  Non si può pensare che un pezzo di sanpietro o  di nasello possano avere lo stesso tempo di cottura e rimangano presentabili”.

Nota: in questo testo si propone anche l’aragosta che, invece, ricette più recenti escludono.  E’ però vero che per la bouillabaisse, così come per altri piatti molto popolari, esistono mille versioni.






Fiore all’occhiello: Il pollo fritto




Nota: Prima di mettere in cottura, passare il pollo sulla fiamma per togliere qualsiasi traccia di piumaggio, lavare accuratamente anche l’interno, già privato delle interiora, e asciugare perfettamente.







Tagliare a pezzi il pollo; farlo rosolare con pochissimo olio d’oliva in una casseruola spessa. A mano a mano che i pezzi sono rosolati, metterli da parte su un piatto caldo.Togliere l’olio e rimettere il pollo nella casseruola con ub po’ di burro, pochissimo. Aggiungere due cipolle non molto grosse tagliate a fettine sottili, due pomodori spellati, un po’ di prezzemolo e timo, uno spicchio d’aglio, alloro, pochissima acqua calda, sale e pepe. Girare spesso stando attenti a non far bruciare il condimento. Cuocere e fuoco bassissimo. Mezz’ora prima di servire, aggiungere qualche fungo, olive nere greche, italiane o provenzali, e il fegato. Un bicchierino di cognac nela casseruola scoperta perché evapori. Al momento di servire, cospargere con prezzemolo e aglio tritati finissimi.”





“Andavamo pazzi per le patate cotte sotto la cenere e, d’inverno, per le castagne cotte allo stesso modo. La cucina di mia madre era come lei, rapida, senza complicazioni, chiara e pulita. Niente odori di grasso cotto, perché l’olio e il burro servivano una volta sola e la casseruola veniva quindi ripulita a fondo. Tutto questo andava d’accordo anche con la regola fondamentale di Renoir: fare cose buone con poco; usare solo il meglio, ma con parsimonia.”



 

Grazie alle fonti

Jean Renoir, “Renoir, mio padre”
Adelphi Edizioni Spa, Milano, 2015
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J.B. Reboul, La Cuisinière Provençale
Tacussel, Editeur – Marseille,

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giovedì 11 febbraio 2016

Due donne in scena. Due grandi desserts. Merci Monsieur Escoffier







È una sera del 1890. I saloni dell’Hotel Savoy, a Londra, splendono di luci e di bel mondo. Da quando la gestione è in mano a Monsieur Ritz , il grande albergo è frequentato dall’aristocrazia europea, da celeberrimi artisti e scrittori. Perché César Ritz, venuto dal nulla - anzi da un cantone svizzero e da una famiglia povera che aveva altri 12 figli prima di lui  - sembrava destinato alla pastorizia. Invece il destino gli aveva riservato un'altra storia. Grande. Ancora giovane abbandona le montagne per scoprire il mondo. E ci riesce benissimo: lavora un po’ in ristoranti e un po’ in alberghi, sempre più prestigiosi, guadagnando esperienza e notorietà. Sensibilità e gusto per il bello gli consentono di captare le necessità, i desideri e le attese di Case reali, nobiltà, celebrità, ricchi borghesi, in movimento. Necessità di lusso, di raffinatezza, di eccellenza, anche fuori dalle proprie dimore. Assumendo la gestione di alberghi di alto livello ma tradizionali, Ritz li trasforma, radicalmente.
E’ il caso del Savoy Hotel situato nel mondano e centralissimo Strand di Londra. Le stanze, magari belle ma anonime, diventano suite lussuose dotate perfino di una stanza da bagno personale, fino a quel momento inconcepibile negli hotel di qualsiasi livello e Paese. Dai muri spariscono le polverose tappezzerie sostituite da pitture e stucchi. Le pulizie sono effettuate quotidianamente. E con grande accuratezza (anche questo più che raro…). Il servizio è ineccepibile.



Ma anche il ristorante muta volto e funzione. L’usanza, per il pranzo in albergo, è quello della table d’hôte, cioè una grande tavola comune, attorno alla quale ci si siede liberamente e si  consumano i pasti fianco a fianco di persone magari sconosciute. Monsieur Ritz pensa alla riservatezza, al piacere degli ospiti di scegliere i commensali che preferiscono, pur mostrandosi in società, e così elimina il tavolone e riorganizza la sala da pranzo con tavoli separati. Un successo immediato e senza precedenti, tale da rivoluzionare abitudini consolidate: le signore non cenano più nei loro appartamenti privati ma frequentano la salle à manger, punto di ritrovo dove s’incontra il mondo che conta ma si pranza solo con chi si desidera.




Quella sera del 1890, a uno dei tavoli siede il brillante principe di Galles, Albert Edward, che agli albori del nuovo secolo succederà alla madre, la regina Vittoria, con il nome di Edward VII, diventando naturalmente re della Gran Bretagna e d’Irlanda nonché imperatore delle Indie. Fra le varie pietanze, sono servite cosce di rana, un cibo prelibato, raffinato, da gourmet.  Ma, poiché è noto che i britannici (e non solo quelli di sangue blu) hanno una conclamata repulsione per questo batrace, il piatto è presentato come “Cuisses de nymphe”: le rane, come nelle fiabe, si sono magicamente trasformate in seducenti ninfe.  Un escamotage linguistico, che poteva essere consentito solo al “re dei cuochi e cuoco dei re”: Auguste Escoffier.




Il 12 febbraio è l’81mo anniversario della morte del grande chef, avvenuta a Monte-Carlo, quando sfiorava i 90 anni. E però la morte non rappresenta anche la sua scomparsa. Anzi. La notorietà e la stima che lo circondano, fanno di Escoffier in mito.  Proprio come avviene per César Ritz, con il quale egli percorre un bel tratto di  cammino, di fondamentale importanza sia per l’industria alberghiera sia per la cucina francese, elevata a stella di prima grandezza.


Max Pfyffer, César Ritz e Auguste Escoffier


Due destini incrociati per origine, professione, caparbietà, sensibilità, grande gusto, capacità d’innovazione e ricerca della perfezione. Destini incrociati anche per il calendario, con due mesi che li accomunano: febbraio e ottobre. Se il 12 febbraio (1935) segna la conclusione dell’esistenza per Auguste Escoffier, il 23 febbraio  (1850) aveva segnato l’inizio della vita di César Ritz.  Parallelamente, se il 24 ottobre (1918) si concludeva la vita  di Ritz, il 28 ottobre (1846) veniva al mondo Escoffier.

Il re dei cuochi, grande innovatore, ha firmato piatti che, ancora oggi, sono un fiore all’occhiello dei menù a livello mondiale. E che hanno una storia. Affascinante, come una donna. Anzi due. Entrambe legate a opere liriche. (In)cantatrici. Per loro Auguste Escoffier ha creato due desserts. Immortali. Che lasciano in bocca il sapore di frutti dolci e succosi.  Si chiamano Pêche Melba e Poire Belle-Hélène.



La Pêche Melba



Hotel Savoy, 1894  -  In tavola, per la prima volta trionfa “Pêche Melba”  -  E’ un omaggio alla famosa soprano australiana Helen Porter Mitchell,  nome d’arte Dame Nellie Melba. Melba, contrazione di Melbourne, città natale della cantante.





Così il racconto dello Chef.
“Madame Nellie Melba, grande cantante lirica di nazionalità australiana, cantava al Covent Garden a Londra con Jean de Reszke nel 1894. Abitava all’Hotel Savoy vicino al Teatro, quando io dirigevo le cucine di questo importante albergo. Una sera, in scena c’era Lohengrin e Madame Melba mi offrì due poltrone in platea. Si sa che in quest’opera appare un cigno. Madame Melba aveva previsto per la sera seguente una cenetta per pochi intimi, fra i quali il Duca d’Orléans. Per dimostrarle che io avevo piacevolmente approfittato delle poltrone che mi aveva gentilmente offerto, feci tagliare in un blocco di ghiaccio un cigno superbo e, fra le due ali posai un timballo d’argento. Coprii il fondo del timballo con gelato alla vaniglia e, su questo letto disposi delle pesche a polpa bianca e morbida (….) scottate per qualche minuto in uno sciroppo alla vaniglia e raffreddate.  Un puré di lamponi freschi copriva completamente le pesche. Un leggero velo di zucchero filato completava la preparazione (…)


Tuttavia, la Pêche Melba conquistò la sua popolarità solo nel 1899, all’apertura del Carlton a Londra. Per il servizio corrente, questo dessert è il più semplice da preparare: è sufficiente coprire con gelato alla vaniglia il fondo di una coppa in cristallo (…). Posare poi sul gelato delle pesche a polpa bianca e morbida, mature al punto giusto, sbucciate e denocciolate, dopo averle affogate per qualche minuto in uno sciroppo leggero profumato alla vaniglia. Quindi nappare le pesche con un puré di lamponi freschi, zuccherati. Facoltativo l’uso dello zucchero filato finale.” 

 Auguste Escoffier



La ricetta


4 pesche bianche (buccia con peluria)
Per  lo sciroppo: – ½ litro d’acqua - 200 g zucchero – 1 stecca vaniglia
succo di limone
Per il puré di lamponi: 200 g lamponi – 100 g zucchero
succo di limone

Preparare lo sciroppo: versare l’acqua in una casseruola, aggiungere lo zucchero, qualche goccia di limone, la stecca di vaniglia aperta a metà e portare a bollore.  Intanto immergere per qualche istante le pesche – meglio una ad una – in altra acqua bollente, passarle poi in acqua freddissima, quindi togliere delicatamente la buccia, cercando di non danneggiare la polpa; aprirle a metà e levare il nocciolo. Immergere le pesche nello sciroppo portato a bollore dolce e lasciarvele per due/tre minuti; spegnere il fuoco e lasciar intiepidire, poi mettere da parte.
Preparare il puré di lamponi: in un tegame mettere i lamponi sciacquati velocemente, coprirli con lo zucchero, aggiungere un poco d’acqua, porre sul fuoco e lasciar cuocere per una decina di  minuti; passare il tutto al setaccio (o cun un mixer, aggiungere qualche goccia di limone, poi mettere da parte.
Assemblaggio – In quattro coppe di cristallo adatte per macedonia, stendere il gelato alla vaniglia, appoggiarvi sopra le mezze pesche lasciando la parte tonda verso l’alto e napparle con la salsa di lamponi.


Note - Dosi liberamente calcolate. Nel tempo la ricetta originale “Pêche Melba” è stata rivisitata molte volte, anche da cuochi di fama.
Una versione, che viene definita “classica”, prevede l’aggiunta sia di mandorle tostate,  tagliate fini, sia di crema Chantilly.
Ben più radicale la scelta di Alain Ducasse che ha trasformato la pesca in sorbetto e con questo, ricompattandolo,  ha ricostruito la pesca, posandola poi su uno strato di granita di ribes. Come nocciolo, una bavarese alle mandorle, avvolta nel cioccolato.
Christophe Michalak ha osato ancora di più, trasformando la “Pêche Melba” nel ripieno dei famosi macarons.  Questo ripieno è formato da un impasto morbido di cioccolato bianco aromatizzato con pesche gialle e ribes.





La Poire Belle-Hélène

“Dis-moi, Vénus, quel plaisir trouves-tu
À faire ainsi cascader, cascader la vertu!”




In termini temporali, la “Belle-Hélène” viene prima della “Melba”.  Auguste Escoffier crea questa delizia più o meno intorno al 1864, dunque quando non era ancora ventenne e  faceva pratica nelle cucine del Petit Moulin Rouge, un cabaret di moda a ridosso degli Champs-Elysées a Parigi. Già allora amava la lirica e non sembrava insensibile al fascino femminile, con un certo debole per le cantanti, magari famose o prossime al successo.





Nella Ville Lumière si parlava e straparlava di un’opera-buffa cui stava lavorando il compositore Joseph Offenbach. Musica gioiosa, travolgente, su libretto firmato Henri Meilhac e Ludovic Halevy, che lasciava trasparire una decisa critica a quella società imperiale che si era distinta per  mancanza di moralità e ricerca continua di divertimenti sfrenati. Tanto che pure la censura aveva trovato qualcosa da dire e imposto “ammorbidimenti”.  Fatto sta che l’operetta debutta al Théâtre des Variétés il 17 dicembre 1864. In scena Hortense Schneider, soprano prediletta da Offenbach. Il successo è immediato e sarà duraturo: 500 rappresentazioni consecutive.
Ecco, nessuno sa dire in che momento  Escoffier creò il magico dessert,  evidente omaggio al’operetta ma anche – o soprattutto? – alla straordinaria cantante e affascinante Dame di nome Hortense.




La ricetta

6 pere  - 1 litro d’acqua – 400 g zucchero – 1 baccello di vaniglia
 200 g cioccolato fondente – 150 g mandorle tostate e affettate
 gelato alla vaniglia


Per lo sciroppo, versare l’acqua in una casseruola, aggiungere lo zucchero, la stecca di vaniglia aperta a metà e portare a bollore su fiamma dolce. Sbucciare le pere e scottarle nello sciroppo, che deve solo fremere, per una decina di minuti. Lasciar raffreddare nello sciroppo e poi scolare.  In altra piccola casseruola, a bagno-maria, far fondere il cioccolato tagliato a pezzetti, aggiungendo un poco d’acqua. In forno, tostare le mandorle.
In una coppa o piattino curvo mettere una pallina di gelato alla vaniglia, accostare una pera sciroppata, nappare con il cioccolato caldo e  cospargere  di mandorle.

Nota: Le mandorle possono essere tostate anche in una padellina ma bisogna muoverle molto e fare ben attenzione a che non scuriscano troppo perché diventerebbero amare.  In commercio si trovano già affettate.


Grazie alle fonti

Libri

“L’Histoire à la carte by TM, Editions de la Martinière