Ricette

domenica 6 marzo 2016

Ferrara, il suo cantore è sempre Giorgio Bassani. E la zuppa inglese è nata qui. Forse.





L’Italia è il paese che ha consentito al mondo, che era antico,
 di diventare moderno.
 L’Italia è il paese dove è accaduto il Rinascimento…
Giorgio Bassani




 “… Un’altra volta finimmo dai Perotti, che abitavano in una casa colonica vera e propria, con annesso fienile e stalla, a mezza strada fra la casa padronale e la zona dei frutteti.
Fummo ricevuti dalla moglie del vecchio Perotti, la Vittorina, una scialba arzdòra di età indefinibile, triste, magra allampanata, e dall’Italia, la moglie del figlio maggiore, Titta: una trentenne di Codigoro grassa e robusta, con occhi d’un celeste acquoso e capelli rossi. Seduta sulla soglia di casa sopra una seggiola di paglia, circondata da una folla di galline, la sposa allattava, e Micòl si chinò ad accarezzare il bambino.
 « E allora, quand’è che torni a invitarmi a mangiare la minestra di fagioli? », chiedeva intanto alla Vittorina, in dialetto.
« Quando vuole lei, sgnurina. Basta solo che si contenti….»
« Uno di questi giorni dobbiamo proprio combinare», rispose Micòl, grave. « Devi sapere» aggiunse, rivolta a me, «che la Vittorina fa delle minestre di fagioli monstre. Con la cotica di maiale, naturalmente….».”

Giorgio Bassani, “Il giardino dei Finzi-Contini”, Einaudi, Torino 1962






Cento anni fa, il 4 marzo 1916, nasceva Giorgio Bassani, da un’agiata famiglia ferrarese di origine ebraica. Nasce a Bologna ma per sempre sarà ferrarese, nel cuore, nella mente, negli scritti.  A Ferrara compie il suo percorso scolastico fino all’università, che frequenterà a Bologna, Facoltà di Lettere. Ma da Bologna tornerà a casa ogni sera, così come da Roma, dove approda verso il 1945, tornerà nella sua città per almeno un mese all’anno.
Ferrara, la città degli Estensi, dunque di Rinascimentale nobiltà, fa da sfondo “fisicamente” ai suoi romanzi che però raccontano storie di gente borghese, comune, in un’Italia – e una città - segnata dal fascismo. Lui, politicamente, sarà antifascista, socialista, svolgerà attività clandestina e per questo sarà anche incarcerato, nel 1943, per alcuni mesi, nella prigione di via Piangipane. 


“Il giardino dei Finzi-Contini “ è il suo romanzo più famoso, un cammeo, pubblicato nel 1962 e subito un caso editoriale, Premio Viareggio, e 100mila copie in cinque mesi. Sarà inserito, acquistando ancora più forza, più significato, in quel “Romanzo di Ferrara” che rappresenta il percorso narrativo di Bassani. 
Scrittore, poeta, talent-scout: Giorgio Bassani, cui venne affidata nel 1948, da Marguerite  Caetani, la direzione editoriale della rivista letteraria “Botteghe Oscure”, conobbe un giovanissimo Pasolini e ne intuì subito le grandi potenzialità letterarie. Più avanti, consulente di Feltrinelli, convincerà l’editore a  pubblicare “Il Gattopardo”, capolavoro di  Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Ferrara, “Una città di pianura” - come recita il titolo del primo libro di Bassani, pubblicato con lo pseudonimo di Giacomo Marchi – può vantare nomi di alto lignaggio. Anche in cucina. Perché i fasti, la ricchezza, l’abbondanza e la raffinatezza della cucina della Corte Estense non avrebbero potuto esistere senza una guida di eccellenza  come quella di Cristoforo di Messisbugo, ferrarese per nascita. Non a caso ancor oggi egli è ricordato come il più celebre scalco del Rinascimento. Ed essere “scalco” era un grande onore. Infatti, lo scalco non era un semplice cuoco bensì un soprintendente alle cucine principesche e aristocratiche; non era un servitore ma un cortigiano: un gentiluomo per nascita o, più raramente, per meriti culinari. 




Agli inizi del ‘500  (non ne è nota la data di nascita) Cristoforo di Messisbugo, dunque, regnava incontrastato nelle cucine estensi e la sua notorietà travalicava di gran lunga i confini territoriali del Ducato. A ragione perché la sua era  una  cucina ricca e innovativa: egli ha introdotto le melanzane che fino alla metà del XVI secolo erano disprezzate; ha usato il carciofo, ignoto ai più; ha “lavorato” carni di agnello e coniglio, assai delicate; ha ridotto i sapori acri della selvaggina con il “gioco” del dolce-salato, che rimane tuttora nella cucina moderna;  ha apprezzato e recepito le gastronomie di altri Paesi con i quali era entrato in contatto. Ha anche fatto ricorso, con grande sapienza, all’uso dell’aceto balsamico prodotto a Modena, che già allora aveva una grande tradizione e che divenne  blasone della cucina ducale quando, nel 1859, la Corte Estense si trasferì nella nuova capitale, Modena appunto.




La summa di questo e altro si tradusse nella redazione di un testo che ben presto acquistò celebrità: “Banchetti: composizione di vivande e apparecchio generale”.  Un ricettario straordinario che illustra cibi e  fasti delle antiche e nobili tavole, pubblicato postumo nel 1549, dieci anni dopo la sua scomparsa.  




Nell’apparecchiatura della tavola, si ritrovava grande attenzione. Le tovaglie, ad esempio. Non ce n’era una sola, bensì un numero adeguato al menu, e venivano messe in sovrapposizione, l’una sopra all’altra. Per una ragione ben precisa: poiché non era ancora in uso la forchetta, ci si serviva con le mani direttamente dal piatto di portata e, inevitabilmente, parte di cibi e sughi finivano sulla tovaglia stessa. Così, a ogni portata, si toglieva quella sporca, lasciando la  seguente, perfettamente pulita. Insomma una tavola sempre impeccabile.
Molte le ricette che sarebbe interessante illustrare, ma si passarebbe al  trattato. Ecco alcune scelte, certamente opinabili, ma altrettanto certamente caratteristiche della grande cucina ferrarese.



Due storie. Belle.


Onore al pane



 Già dalla forma, si distingue. Si chiama “Coppia ferrarese”, detta “Ciopa” o, più familiarmente, “Ciupeta”. E’ un bellissimo torciglione che, per il gioco degli incroci, forma quattro punte.  Nell’antichità, si parla del Medio Evo, era confezionato a pagnotta e protetto da severe norme per confezione e conservazione., dettate da illuminati legislatori.
Inoltre si stabiliva che il pane dovesse avere degli orletti; che non si abbassasse quando cuoceva; che avesse un determinato peso specifico; che fosse ben cotto; che venisse coperto da drappo bianco, una volta ultimato;  che il produttore si identificasse mediante l’apposizione di un sigillo. 



Secondo alcune fonti – tra le quali Messisbugo -  l’attuale forma della coppia ferrarese  sarebbe nata nel 1536, durante il carnevale, in occasione di una grande cena offerta da Messer Giglio al Duca di Ferrara. Per la cronaca, Messer Giglio risulta  essere un antenato della famiglia ferrarese dei conti Giglioli.
Gli ingredienti della Ciopa, definita da Riccardo Bacchelli “Il pane più buono al mondo”, sono: farina “0” prodotta dai mulini del Po, strutto di puro suino, olio extravergine di oliva, lievito madre, sale, malto.  Un vigoroso impasto e una lunga lievitazione.
Nell’ottobre del 2001 è stato messo a punto un disciplinare DOP-IGP, confermato nel 2007.




Il miracolo delle tagliatelle




Si narra che il “miracolo” sia avvenuto nel 1503 in occasione del matrimonio di Lucrezia Borgia con Alfonso d’Este di Ferrara.
Lucrezia, bellissima, flessuosa, occhi azzurri e lunghi capelli biondi, ha appena 21 anni ed è già al terzo matrimonio. Figlia illegittima del cardinale spagnolo Roderic Liançol de Borja, diventato Papa come Alessandro VI, è stata protagonista di grandi intrighi e approda a Ferrara felice di allontanarsi da Roma ma non particolarmente desiderata del promesso sposo. Comunque sia le nozze devono avvenire con il fasto tipico del Rinascimento. Ed ecco che la storia ci propone due storie, entrambe, però, raccontano che le tagliatelle sono nate per imitare i lunghi capelli biondi di Lucrezia. Ma chi le ha inventate queste tagliatelle? 




Secondo alcune fonti, sarebbe stato Mastro Zefirano, cuoco al servizio di Giovanni II di Bentivoglio, signore di Bologna, cui era stato chiesto di organizzare un banchetto sontuoso per il passaggio di Lucrezia Borgia, in viaggio da Roma a Ferrara per le nozze. E Mastro Zefirano ebbe la grande intuizione di tagliare a strisce le sfoglie per la pasta. 



L’altra versione chiama nuovamente in causa lo scalco Messisbugo che ci tramanda anche l’antica ricetta: “piglia tre scutelle di farina bianca, uova tre, e fa la pasta un poco molle e poi tira una spoglia longa e stretta e sottile fin che puoi e puoi tirarla detta spoglia tanto che venga sottile come la carta e lasciala seccare, poi piglia buon brodo grasso che boglia e gettale  dentro e falle cuocere adagio e come saranno cotte le imbandirai nel piatto con formaggio sopra”.

Questa la base. Ma a Ferrara sono riusciti a trasformare le tagliatelle anche in una torta...






Le ricette

Pasticcio di maccheroni




Attenzione: Il sapore finale è molto particolare perché associa il dolce (la crosta) al salato (l’interno). E metterà a prova la vostra abilità.

Per la pasta frolla
Farina 450 g – burro 180200 g -  zucchero 100g –tuorli d’uovo 4 -
scorza di limone grattugiata, un cucchiaio raso -  una presa di sale.

Per il sugo
polpa di vitello tritata 150 g - polpa di manzo tritata, 150 g –
 petto di pollo tritato 150 g - rigaglie di pollo 150 g –
vino bianco secco, mezzo bicchiere
marsala, un bicchierino
burro 50 g - poco olio extravergine di oliva –
sedano, cipolle e carota tritati – sale

Per la besciamella
Latte 500 ml - farina 1 cucchiaio – burro 50 g
, noce moscata grattugiata -  sale

Per il ripieno
Funghi secchi 50 g – parmigiano grattugiato 50 g
maccheroncini rigati 250 g - tartufo






Preparare la pasta lavorando velocemente gli ingredienti e lasciarla riposare in luogo fresco. Far rosolare intanto le carni, separatamente, in burro e olio, salare e sfumare col vino e il marsala. Scottare i funghi, precedentemente ammollati in poca acqua salata e passarli in  una noce di burro. Anche le verdure, non indispensabili, vanno soffritte in olio e burro. Preparare poi la besciamella, insaporendola, a fine cottura, con la noce moscata grattugiata.
Lessare i maccheroncini al dente, scolarli e condirli con
la besciamella tiepida, i funghi, il ragù ottenuto unendo tutte le carni, il parmigiano grattugiato e  le lamelle di tartufo, mescolando con estrema delicatezza.
Stendere la pasta frolla e disporre un disco sulla teglia imburrata, adagiare il ripieno formando la caratteristica calotta, ricoprire con
un’altro disco di pasta, chiudere i bordi e decorarli, premendo energicamente con una forchetta. Spennellare la superficie con rosso
d'uovo sbattuto.
Infornare a 175/180 °C  e, a doratura avvenuta, servire ben caldo.



Risotto tradizionale all’anguilla di Comacchio



Riso del Delta del Po 500g – anguille 1 kg circa – una costa di sedano – una carota – due cipolle medie – noce moscata   1 dado per brodo vegetale  –
pomodoro concentrato (la punta di un cucchiaio)
 pecorino grattugiato  50 g – parmigiano  grattugiato 50 g –
 olio extravergine di oliva 50/80 g – sale



Spellare e spinare le anguille, prelevandone la polpa. Mettere le lische e la pelle in una pentola d’acqua con sedano, carota, cipolla, portare a bollore e lasciar cuocere in modo da preparare un brodo saporito. Soffriggere in poco olio l’altra cipolla tritata fine e aggiungere la polpa delle anguille assieme a un quarto di litro d’acqua. Dopo circa mezz’ora, quando la polpa avrà raggiunto il giusto punto di cottura passare il tutto con passaverdura o, ancor meglio, con il setaccio. In un tegame unire l’anguilla passata e il riso, aromatizzare con noce moscata, la scorza di limone grattugiata e un po’ di pomodoro passato. Far cuocere, aggiungendo man mano il brodo ottenuto con le frattaglie e le verdure  (filtrandolo accuratamente con passino dalle maglie molto fini), portando il riso a cottura. A questo punto il risotto deve avere i chicchi al dente ed essere all’onda (cioè non asciutto). Condire con pecorino e parmigiano e servire caldissimo.



Nota: Secondo tradizione, nelle valli di Comacchio si abbinano i vini bianchi alla carne e i vini rossi al pesce. Come dire, il mondo alla rovescia! Provare, provare… non rinunciate ad aprire una nuova finestra sul gusto.




Ciambella ferrarese o brazadela





Brazadela significa bracciatella. L’origine del nome deriva dal fatto che nei tempi antichi - si parla del 1250 - questa focaccia popolarissima, semplice ma gustosa, veniva infilata nel braccio destro dal servitore che con il sinistro serviva il vino per inzupparla.
Aveva dunque, rigorosamente, la forma di ciambella. Con l’andar  del tempo è rimasto il nome ma  sovente viene data una forma a tutto tondo o allungata.
Gli ingredienti sono “minimali”, la confezione è semplice.  



150 g zucchero – 120 burro – 3 uova intere + 1 tuorlo – 375 g farina “00” – 15 g lievito in bustina – granella di zucchero – buccia di limone vaniglina




Lasciate ammorbidire il burro a temperatura ambiente e quindi lavorarlo velocemente con lo zucchero per amalgamare (senza montare). Aggiungere le uova, la buccia di limone grattugiata (attenzione a eliminare tutta la parte bianca) e una bustina di vaniglina. Mescolare. Infine aggiungere la farina unita al lievito, impastando a mano. Quando il tutto si sarà compattato, formare una palla, dividerla in due, aiutandosi eventualmente con nuova farina, e formare due ovali, forma ormai entrata nella consuetudine ferrarese. Apppoggiare su carta oleata e lasciar riposare per 10 minuti. Intanto si sarà pre-riscaldato il forno a180°C. Dopo i dieci minuti praticare dei leggeri tagli obliqui nella pasta, per favorirne la lievitazione. Battere leggermente il tuorlo con qualche goccia di latte e spennellare bene la superficie delle due ciambelle. Infine, cospargere con la granella di zucchero e infornare le brazadele per 25-30 minuti controllandone la perfetta cottura con uno stecchino (ma non prima dei 25 minuti!). Sfornare e lasciar raffreddare.





Zuppa inglese





L’invenzione di questo dolce è rivendicato da più parti e da più città. Secondo racconti che si tramandano di generazione in generazione, la zuppa inglese sarebbe nata nel XVI secolo alla corte Estense, come rielaborazione del Trifle, dolce anglosassone formato da pasta di pane lievitata, bagna alcolica, panna, confetture e biscotti.  La ricetta sarebbe stata portata a Ferrara da un diplomatico accreditato presso la casa reale d’Inghilterra. Dapprima i cuochi avrebbero sostituito la pasta di pane con una ciambella morbida, la brazadela. In una seconda fase, si sarebbe passati al Pan di Spagna ammorbidito da crema pasticcera e cioccolata.
Esiste poi la versione Ottocentesca che vede protagonista una governante inglese. Questa, per confezionare il dolce avrebbe utilizzato biscotti avanzati ammorbiditi nel vino e poi uniti a crema pasticcera e budino di cioccolato.






Pan di Spagna 250 g . tuorli d’uovo 4, - zucchero 4 cucchiai – cioccolato fondente 50 g – latte intero 5 dl – alchermes un bicchierino –
 buccia di limone q.b.



Preparare una crema pasticcera lavorando con una frusta tuorli e zucchero, fino a ottenere un composto soffice e cremoso; unire la farina e amalgamare bene in modo da evitare grumi. Scaldare il latte con la buccia di limone, togliendo dal fornello prima del bollore.  Porre la crema in cottura a bagno-maria aggiungendo gradatamente il latte e mescolando senza interruzioni. Togliere dal fuoco quando la crema si sarà addensata e ripartirla in due ciotole. In una di queste  aggiungere il cioccolato fondente, sciolto,anche questo, a bagno-maria. Disporre metà del pan di Spagna in un piatto da portata, irrorare con Alchermes, ricoprire con la crema al cioccolato. Coprire con il restante Pan di Spagna, irrorare nuovamente con Alchermes e terminare con uno strato di crema pasticcera. Porre in frigorifero per qualche ora e servire fresco.






Grazie alle fonti







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