Ricette

venerdì 30 maggio 2014

Impasta e stampa: oggi si servono...corzetti. Nobili.








Se si dice vermicelli, si pensa subito a Napoli e dintorni. Se si dice  tagliatelle, l’immagine di Bologna balza agli occhi. Se si dice anelletti, s’impone la Sicilia… Eppure…Per secoli la supremazia nel settore della pasta, soprattutto essiccata,  è stata della Liguria.
Qualche data. Presso l’Archivio di Stato di Genova  si trova documentazione della produzione locale di pasta in atti notarili che risalgono al 1244. Nel 1574 si costituisce la prima Corporazione dei pastai, che precede anche quella dei Vermicellari napoletani e di quelli palermitani. Nel 1740 si apre nella capitale ligure la prima fabbrica di “pasta fine”. Nel 1794 inizia la sua attività il più antico pastificio italiano, con metodi di produzione non molto dissimili da quelli odierni.
La supremazia della Liguria è durata per tutto l’Ottocento e fino alla metà del Novecento si usava dire “pasta all’uso di Genova”.


Il portale dei produttori e distributori di pasta riporta ben 18 formati tipicamente liguri. Dai  notissimi fidelini, che diedero il nome alla corporazione dei pastai  - detti i Fidelari – agli altrettanto noti pansotti, trofie, testaroli, trenette, bavette e via dicendo, per arrivare alle paste meno diffuse come mandilli de saea (nome di origine araba che significa “fazzoletti di seta”), piccagge  (tagliatelle di semola di grano duro), zembi d’arzillo (ravioli con ripieno di pesce), solo per citarne qualcuno. 

E c’è un altro formato, quello che mi ha incantato: i corzetti o croxetti o cruxetti. Pasta fresca tagliata a dischetto. Due le versioni: corzetti stampati e corzetti polceveraschi. I primi comparivano sulle tavole imbandite delle nobili case, i secondi erano appannaggio del “popolo”, in altre parole, di chi non aveva molti mezzi. 


Un cenno alle origini. Il nome “corzetto” deriva dall’immagine stilizzata di una piccola croce, con la quale era decorata una delle due facce del medaglione di pasta.  Alcuni sostengono che in realtà i corzetti siano nati in Piemonte e abbiano avuto la notorietà attraverso la Liguria. Altri ritengono che nascita, forma e nome siano legati a una moneta dell’antica Repubblica di Genova,  il “corazzo” o “crosazzo”.  Altri ancora che derivino da una pasta provenzale, i “Crosets”, da cui discendono anche le orecchiette pugliesi.




Corzetti stampati detti anche corzetti del Levante. Fin dal Rinascimento, nelle famiglie di alto lignaggio i corzetti  venivano stampati a mano, uno per uno, con lo stemma della famiglia, come segno di magnificenza e di dominio sul territorio.  Per quest’operazione era  usato un apposito stampo – chiamato anch’esso “croxetto” o “corzetto”, rigorosamente di legno pregiato, quale acero, faggio, melo, pero. Tutti legni, questi, privi di resine e tannini, in modo da non alterare in alcun modo il sapore della pasta.  




Il “corzetto”  (stampo) è composto da due parti: una che ha la funzione di timbro e l’altra, di forma cilindrica con una parte incisa e concava, che serve per tagliare la pasta.

Corzetti polceveraschi. Niente stampi originali e pregiati in questo caso. Solo impasto e..grande lavoro delle mani.  E, infatti, questi corzetti sono anche detti "tiae co-e die" cioé "tirati con le dita".
  
Ricette

Si tratta in entrambi i casi di pasta all’uovo. Nel passato, ricchissima di uova per renderla il più possibile  di colore giallo-brillante, forse per simulare l’effetto oro. Un'antica ricetta  prescrive addirittura 12 uova per ogni chilo di farina. Oggi la sfoglia ne richiede di meno...



La base comune 

 

Farina di grano duro 400 gr – 2 uova – olio extravergine di oliva 2 cucchiai – 
acqua tiepida qb

Mettere la farina sulla spianatoia, fare la fontana e rompervi dentro le uova. Sbatterle con la forchetta,  incorporando poco a poco la farina, versare un po' alla volta l'acqua e impastare a lungo, fino a ottenere una massa liscia. Lasciar riposare per almeno un’ora coprendo con due salviette, una umida e una asciutta. Poi procedere come segue.
 
Corzetti stampati - Tirate una sfoglia abbastanza spessa -  circa 4 millimetri – e, usando la parte tagliente dello stampo, create i dischetti.  Con la parte decorata dello stampo stesso, incidete i medaglioni. Il disegno prodotto, oltre che di grande eleganza, consentirà di trattenere il sugo. Lasciar asciugare i corzetti su un canovaccio prima di procedere alla cottura: breve e, come di consueto, in acqua salata.



Corzetti polceveraschi  - Riproponiamo la lavorazione proposta in una ricetta del 1865 tratta dalla "Cucineria genovese". Dall’impasto "spiccatene a poco a poco tante particelle simili ad un grosso cece, le quali comprimerete con i polpastrelli delle due dita indici rendendole alla forma di tanti 8. Si lasciano dissecare per alcuni giorni e si cuociono a largo d'acqua in pentola o caldaia".




 
Come condirli? Pesto, sugo alla genovese, sugo di funghi, salsa ai pinoli . Di quest'ultima,  ecco la ricetta adatta per la pasta.




Sarsa de pigneu 

Pinoli 180 gr - aglio di Vessalico 2 spicchi - mollica di pane bagnata nel latte e strizzata - 30 Parmigiano reggiano 30 gr - prescinseua (cagliata) 1 cucchiaio -  maggiorana due rametti -  olio extravergine di oliva - sale marino integrale grosso qb

Pestare l’aglio nel mortaio, unire i pinoli e continuare a pestare sino ad ottenere un denso composto. Roteando col pestello, aggiungere la maggiorana e il sale, la mollica passata al setaccio, la prescinseua e il formaggio. Sempre mescolando, diluire la salsa con l’olio versato a filo. Se la salsa è troppo densa, aggiungere un cucchiaio d’acqua calda di cottura della pasta. 



E già che parliamo di pinoli, ecco una salsa perfetta per carni e pesci bolliti o alla griglia.

Sarsa de pigneu di Carletta

Pinoli 150 gr - mollica di pane  100 gr – olio extravergine d’oliva ½ bicchiere - aceto bianco di ottima qualità e sale qb
Far ammollare la mollica di pane in aceto e, quando è ben inzuppata, strizzarla e metterla nel frullatore insieme ai pinoli; versare progressivamente l’olio (come per la maionese) fino ad avere una salsa ben amalgamata. 




Piccoli consigli utili (forse)

 


Salse - la prima è lavorata nel mortaio, la seconda in un frullatore o mixer: naturalmente il mortaio è preferibile e però la mancanza di tempo, sovente, ci obbliga a usare la tecnologia. Che non è male...

Pinoli – Sul mercato sono comparsi  pinoli di origine cinese  e, più in generale, asiatica. E, secondo alcune pessime abitudini (furbate), la provenienza non sta scritta sui cartellini  posti sulla merce. Eppure costano tanto:  dai 40 ai 50 euro al chilo se venduti sciolti. Sovente sono amarognoli e scuriscono molto facilmente. Sono da evitare.
I pinoli di qualità sono quelli di Pisa che, purtroppo, hanno toccato anche  i 65 euro al chilo. E però: mangiamoli una volta di meno ma… come si deve… e chiediamo sempre ai negozianti o al banchetto del mercato di precisare la provenienza, come dev’essere per legge.



Grazie a...

Fonti: Wikipedia - www.lapastaebasta.it -  www.cucinagenovese.it - mangiarebuono.it -
"Cucina Ligure"  a cura di Emanuela Gentile Martini e Federica Isoppo , Alpicella Cooperativa, La Spezia

giovedì 22 maggio 2014

Di tutti i legumi la fava è regina...




…“Diodata gridò dall'uscio ch'era pronto. - Se non avete altro da comandarmi, vossignoria, vado a buttarmi giù un momento.

Come Dio volle finalmente, dopo un digiuno di ventiquattr'ore, don Gesualdo poté mettersi a tavola, seduto di faccia all'uscio, in maniche di camicia, le maniche rimboccate al disopra dei gomiti, coi piedi indolenziti nelle vecchie ciabatte ch'erano anch'esse una grazia di Dio. La ragazza gli aveva apparecchiata una minestra di fave novelle, con una cipolla in mezzo, quattr'ova fresche, e due pomidori ch'era andata a cogliere tastoni dietro la casa. Le ova friggevano nel tegame, il fiasco pieno davanti; dall'uscio entrava un venticello fresco ch'era un piacere, insieme al trillare dei grilli, e all'odore dei covoni nell'aia: - il suo raccolto lì, sotto gli occhi, la mula che abboccava anch'essa avidamente nella bica dell'orzo, povera bestia - un manipolo ogni strappata! Giù per la china, di tanto in tanto, si udiva nel chiuso il campanaccio della mandra; e i buoi accovacciati attorno all'aia, legati ai cestoni colmi di fieno, sollevavano allora il capo pigro, soffiando, e si vedeva correre nel buio il luccichìo dei loro occhi sonnolenti, come una processione di lucciole che dileguava.”….

Giovanni Verga,  “Mastro Don Gesualdo”, 1889

 

“Di tutti i legumi la fava è regina, cotta la sera, scaldata la mattina”

(antico detto popolare)



Ricche di proteine, fibre vegetali, sali minerali, vitamine, le fave si utilizzano sia fresche sia secche sia surgelate.  Ora è il momento di sfruttare questo legume così come natura ce lo fornisce, in abbinamento a pisellini o cicoria,  in puré con seppioline o calamaretti, con pasta o riso, a bruschetta…  Ne vale la pena.
Per ottenere il meglio, scegliete fave  verde vivo, con la buccia croccante, senza macchie. Per pulirle, sgranarle come fossero piselli. Il baccello si apre strappando un'estremità e tirando il "filo" che lega le due "facce".  Se le fave sono di giornata, piccole e tenere, non sarà necessario togliere la pellicina che riveste i semi; basterà privarle della piccola escrescenza che spunta da un lato. Se, invece, non dovessero essere freschissime,  una volta tolto i semi, scottarli per un paio di minuti in acqua bollente, quindi sciacquarli in acqua fredda. Con tale procedimento si toglierà facilmente la membrana di rivestimento del seme, partendo dallo strappo del mini-picciolo. Da tener presente: il baccello delle fave è consistente, quindi lo scarto è molto alto. Infatti, un kg di fave con baccello si trasforma in circa 200-250 gr grammi di fave sgranate.

Le ricette

Pasta e fave

 


500 gr  fave pulite -  200 gr guanciale – 2 cipollott1 teneri (circa 100 gr puliti) - 300 gr pomodorini di Pachino - 2 rametti di timo - 3 manciate di pecorino – 
olio extravergine di oliva, sale e pepe qb    
 400 gr pasta corta 

 Tagliare a striscioline il guanciale e farlo rosolare in una padella con un velo d‘olio, quindi toglierlo e tenerlo al caldo. Nella stessa padella far appassire il cipollotto tagliato finissimo, unire le fave e qualche cucchiaio d'acqua; lasciar stufare per una decina di minuti, fino all'evaporazione quasi completa dell'acqua.  Aggiungere i pomodorini tagliati a quarti, alzando la fiamma. Salare con parsimonia per via del pecorino.  Rimettere in padella il guanciale e mescolare delicatamente. Intanto cuocere la pasta, scolarla molto al dente e trasferirla nella padella. Spadellare a fuoco vivace, aggiungendo il timo e una macinata di pepe nero.  Irrorare con un filo di olio.  Servire subito mettendo a disposizione altro pecorino.

Nota: questa pasta è ottima anche in bianco. Il tempo di cottura delle fave, che devono risultare morbidissime, dipende da quanto sono tenere. Se si toglie la pellicina di rivestimento, le fave manterrano il loro bel verde vivo.




Zuppa di fave, piselli novelli, carciofi 

 



400 gr fave sgusciate - 400 gr piselli novelli – 4 carciofi – 1 cespo di scarola - 4 cipollotti 
 1 mazzetto di prezzemolo – 1 limone – 1.5 lt brodo vegetale – olio extravergine di oliva qb   4 uova biologiche – pane pugliese  - 1 spicchio di aglio -
pecorino romano

Sgusciare fave e piselli, pulire i carciofi conservando solo il cuore tenero e immergerli in acqua acidulata con il limone affinché non anneriscano.  Mondare  e lavare accuratamente la scarola e tagliarla a pezzetti di ca. 3 cm.  Affettare a velo i  cipollotti e, a fiamma dolce, rosolare in un paio di cucchiai di olio. Aggiungere i carciofi e la scarola. Lasciar stufare per qualche minuto, unire le fave e da ultimo i pisellini. Quando il tutto si sarà insaporito e amalgamato, aggiungere il brodo vegetale molto caldo e portare a bollore; lasciar cuocere a fiamma media una ventina di minuti. Al termine aggiustare di sale.  Intanto preparare delle fette di pane tostato, sfregato con lo spicchio d’aglio (non indispensabile….). In fondine o ciotole individuali, disporre il pane tagliato a triangoli, e su questo aggiungere un uovo intero crudo (attenzione a non rompere il tuorlo!). Coprire il tutto con mestoli di zuppa, bollente. Cospargere di prezezmolo tritato finemente, passare una buona macinata di pepe nero, irrorare con un filo un filo d’olio e… buon appetito. Il pecorino grattugiato sarà a disposizione.

Puré di fave con seppioline gratinate

 


500 gr di fave sgusciate – 2 patate medie –  olio extravergine d’oliva qb– sale e pepe qb
1 kg seppioline – 1 cipollotto – 1 spicchio d’aglio – ½ bicchiere di vino bianco secco –  pangrattato - prezzemolo  - olio extravergine di oliva  qb - sale e pepe qb. 


Preparare le fave, togliendo il "picciolo" e la pellicina. Cuocerle per una decina di minuti, buttandole in acqua già bollente; scolare e frullare in un mixer le fave fino a ridurle a crema. Intanto cuocere le patate, con la buccia, a vapore o partendo da acqua fredda leggermente salata. Spellarle mentre sono molto calde e passarle nello schiacciapatate.  Aggiungerle alla crema di fave, mescolare con vigore e rimettere al fuoco per qualche minuto, sempre mescolando e aggiungendo un filo d'olio: il risultato deve essere una massa soffice e gonfia. Regolare di sale e pepe (o peperoncino).

Pulire e lavare le seppioline. Affettare il cipollotto; in una padella farlo appassire in un cucchiaio d’ olio,  unitamente allo spicchio d’aglio, che verrà tolto non appena avrà preso colore. Aggiungere le seppioline e saltarle a fuoco vivace; sfumare con il vino bianco, lasciar evaporare, salare, pepare. Il tutto deve prendere max 10/15 minuti. Disporre le seppioline in una teglia da forno, cospargerle con pangrattato misto a prezzomolo tritato finemente, origano, sale e pepe. Ammorbidire con un giro d'olio. Mettere in forno preriscaldato a 220°C e far dorare.
Servire le seppioline con il puré, a fianco.

Nota: Nel caso non fossero disponibili le seppioline, utilizzare  calamaretti. Il puré può essere accompagnato anche da spiedini di pesce passati in forno o sulla griglia, polpettine di carne o crocchette di baccalà. Insomma... più che un puré è un...passe-partout.




 


Fonti: Giovanni Verga, Mastro Don Gesualdo, a puntate sulla Nuova Antologia nel 1889; prima edizione in volume da Treves Editore, 1890 - Wikipedia - www.freshplaza.it 

mercoledì 14 maggio 2014

Voglia di mare. Azzurro... come il pesce.

-->

“La lingua non è sufficiente a dire e la mano a scrivere tutte le meraviglie del mare.”  Cristoforo Colombo, 1492




“Quando veniva la luna di giugno e le acciughe attraversavano come rondoni l’orizzonte, l’Ernesto diceva che era venuto il momento. Portava in spiaggia, sotto il capannone di canne, le arbanelle, i vasi di vetro, e un sacco di sale grosso.
Dopo la pesca, si pulivano le acciughe, via la testa e le interiora. Si faceva uno strato di acciughe e una manciata di sale, poi un altro strato di acciuge e un altro pugno di sale. Riempito il barattolo lo si copriva ancora con il sale e qualche grano di pepe. Sopra ci si appoggiava una pietra tonda, che ero stato mandato a cercare sulla spiaggia. Si chiudeva bene il barattolo. Bisognava aspettare sessanta giorni perché fosssero ben cotte. Un po’ meno tempo perché dalle mani, strizzando limoni e pomice e sapone di Marsiglia, scomparisse la puzza d’acciuga. Quella che mai, lungo i secoli, si è staccata dalla pelle degli abitanti di Moschiéres e dalle pietre del paese.”  
Nico Orengo, "Il salto dell’acciuga", 1997



Le acciughe sono, probabilmente, la varietà più amata di tutta la grande famiglia del pesce azzurro, che annovera anche sarde e sardine e sgombri e aringhe, aguglie, spatole....
Le alici - altro nome delle acciughe - hanno una carne saporita ma "leggera" che si presta sia alla conservazione – per elezione quella sotto sale – sia  a svariate preparazioni in cucina. E, oltre al privilegio del doppio nome, hanno anche una leggenda tutta loro.

-->
"Tanti anni fa splendeva nel firmamento una famigliola di stelle, le Engrauline, molto piccole ma molto luminose e, purtroppo anche molto vanitose. Ogni notte si specchiavano nell’acqua del mare e rivolgendosi alle Pleiadi strepitavano: “guardate che bella la nostra luce, è come argento puro !” E alla Via Lattea: “guardate i nostri riflessi come palpitano sulla superficie del mare”. E ai pianeti: “guardate quanto ci ammirano gli uomini”.  Stelle e pianeti le sopportavano educatamente sperando che il loro continuo vocìo ogni tanto si interrompesse. Ma le stelline continuavano a ciarlare anche durante il giorno perché non amavano la luce del Sole che le oscurava. Una notte la luna piena si rifletteva sul mare e sembrava una distesa di platino. Le stelline, invidiose, presero ad insultarla:”E’ più grande di noi e per questo si crede più bella; ma non vedi quanto è grassa e che facciona larga e tonda che ha ?”. La Luna, sentendo quelle frasi maligne cominciò a piangere. Il buon Dio allora perse la pazienza: “Ho ascoltato per anni le vostre voci superbe” disse severamente “e sono sempre stato paziente con voi. Ora basta. Vi toglierò dal Cielo e vi manderò nel luogo che vi piace usare come specchio, levandovi anche la voce.” Con un gesto imperioso della mano strappò dal firmamento le petulanti Engrauline gettandole nel mare. “Ecco” disse loro “ora gli uomini potranno godere sempre del vostro splendido color argenteo, che però non sarà più fisso nel cielo ma fuggevole come un sospiro. E finalmente, come pesci, finalmente starete per sempre zitte !”. Fu così che i Mari del mondo si popolarono delle acciughe".



C'è una canzone di Fabrizio De André che parla di quando le acciughe fanno il pallone, cioé, quando avvertono il pericolo da parte di sorelle e fratelli predatori: allora si raccolgono strette strette formando, appunto, una grande palla. 
Lo ricorda Nico Orengo nel suo piccolo libro, prezioso come un elzeviro. "A anciue fan un balun,  - mi dice De André, - a Genova e a Levante si usa così. Da ragazzo le vedevamo alla Foce. Chi le vedeva gridava: "A anciue fan un balun", noi allora uscivamo da casa, dai bar e ci buttavamo a mare con i salabri e i secchielli".


Il regalo del buon Dio, gli uomini l'hanno apprezzato moltissimo e con le acciughe hanno confezionato piatti tanto semplici quanto gustosi, perché questi piuccoli pesci azzurri non hanno bisogno di essere "pasticciati".  Sono buonissimi anche al naturale. In fondo, la loro vanità era anche giustificata...

Le ricette



Quando si parla di acciughe e, più in generale, di cucina ligure, ecco spuntare Carletta che, generosamente, ci invia da Ponente le sue ricette, semplici per confezione, saporitissime al palato.


Acciughe ripiene di Carletta



1 kg di acciughe possibilmente un pò grosse - 1 mozzarella di latte vaccino – 100 gr prosciutto cotto – 2 uova intere – pangrattato – olio extra vergine di oliva  e sale q.b.

Preparare le acciughe: togliere la testa, le interiora e delicatamente la lisca centrale in modo da averle aperte a libro.  Lavarle molto delicatamente e metterle a colare su un tagliere inclinato; tamponarle con carta assorbente da cucina prima dell'utilizzo.  Allineare in piano la metà delle alici e  farcirle con prosciutto e mozzarella precedentemente tagliati a pezzettini (piccoli piccoli), senza debordare; coprire poi ogni acciuga con un altra acciuga, premendo ben bene.  Passarle una alla volta nell' uovo battuto, poi nel pangrattato e friggerle in abbondante olio bollente, che però non abbia raggiunto il punto di fumo. Una volta dorate, porre le acciughe su carta assorbente e servire calde accompagnate da una ciotolina di  sale fino: verranno salate a piacimento da ogni commensale. Questo perché salare l'uovo (com'è abitudine) rende più difficoltosa e meno uniforme l'aderenza del pangrattato.

In alternativa, si può scegliere la cottura in forno. Per questa, mettere le acciughe preparate come sopra in una teglia  unta di olio e infornare a temperatura piuttosto alta (200 – 220 °C) per 15-20 minuti max.  Lasciar intiepidire e servire.


Acciughe marinate ( secondo la blogger)

 


1 kg di acciughe ben in carne – 4 limoni non trattati – 1 mazzetto di prezzemolo -  1 spicchio d’aglio (se gradito) – 1 cucchiaio di pepe nero, verde e rosa in mix e un cucchiaino di bacche di coriandolo -  sale e olio extravergine di oliva q.b.

Pulire e disliscare le acciughe (togliendo la testa), sciaquarle rapidamente sotto acqua corrente, tamponarle con carta assorbente o canovaccio da cucina.  Disporle in una terrina, aperte e affiancate (non sovrapposte), ricoprirle con il limone  spremuto; procedere a un secondo strato, incrociandolo rispetto al precedente. Aggiungere nuovamente il limone e continuare fino a esaurimento delle acciughe. Coprire con una pellicola e lasciar riposare in frigorifero per due/tre ore, quindi riprendere le acciughe, sciacquarle velocissimamente sotto acqua fredda (proprio un istante), asciugare e ricominciare da capo: allineare le alici, salarle leggermente, coprirle con limone e olio emulsionati aggiungere a spaglio un poco di prezzemolo tritato molto finemente, un paio di fettine di aglio, qualche bacca di pepe nero, verde e rosa insieme a qualche  bacca di coriandolo; continuare con gli altri  strati fino a esaurimento. Coprire nuovamente con pellicola e porre in frigorifero. Lasciar marinare qualche ora prima di servire, possibilmente con pane rustico grigliato.



Ma vogliamo ignorare le sarde? Certo che no…. E perciò ...


Sarde a beccafico (dalla Sicilia con amore)

 


1 kg di sarde - 110 gr di pangrattato – 70 gr di acciughe sotto sale – 100 gr di pinoli  - 100 gr di passoline (o uva sultanina) – 1 limone spremuto – 1 cucchiaio di zucchero - prezzemolo -  sale e pepe - olio extravergine d’oliva 
Pulire le sarde togliendo testa e lisca centrale, lasciandole attaccate per la coda. Ammorbidire l’uva sultanina in acqua tiepida.Rosolare il pangrattato con qualche goccia d’olio e, quando avrà acquistato colore, versarne 1 2/3 in una terrina, incorporandovi l’uva sultanina ben asciugata, I pinoli, il prezzemolo e I filetti di acciuga, il tutto ben tritato. Riempire le  sarde con questo composto quindi arrotolarle e disporle l’una accanto all’altra in una pirofila, sparando le fila con foglie d’alloro. Corpargere il rimanente pangrattato e il succo di limone zuccherato. Completare con un filo di olio extravergine d’oliva e infornare in forno preriscaldato a 200°C per non più di 15/20 minuti. Servire le sarde tiepide o a temperatura ambiente.


Grazie

Fonti:  Nico Orengo, "Il salto dell'acciuga", Giulio Einaudi Editore (1997 e 2003) 
Mitì Vigliero, "l'Alice delle meraviglie", Ed. Marsilio, 1998
Alan Davidson, "Il mare in pentola", Arnoldo Mondadori Editore
www.larivstadelmare.it - www.cucinagenovese.it - www.vagheggi.com - nuke.multimediadidattica.it





lunedì 5 maggio 2014

Il tocco magico in cucina si chiama... pepe!

Cosa hanno in comune  gli spaghetti alla gricia, i filetti di salmone marinati con la vodka e la torta cioccolato e pere?


P e p e  !

Il pepe è la spezia più diffusa al mondo. Ma, proprio perché “usuale”, c’è la tendenza generalizzata a comperare senza scegliere, allungando la mano su uno dei tanti espositori del supermercato o, in Paese esotico, lasciandosi  convincere dal bianco sorriso di un venditore locale. E sovente si punta sul mix, tanto per non fare torto ad alcun colore: è un peccato perché il pepe è magico per insaporire i piatti più diversi. Ma ogni colore o varietà ha una destinazione precisa. Allora cerchiamo di conoscerlo meglio.



Il pepe “vero” è il Piper nigrum che si declina in nero, bianco, verde e rosso
Pepe nero – Le bacche sono colte ancora immature e messe a essiccare al sole, procedimento che conferisce il colore bruno e la caratteristica  rugosità alla capsula. Quanto più immaturi si raccolgono i frutti, tanto più piccanti ne risultano l'odore e il sapore del prodotto finale.
Il pepe nero è considerato il più forte fra tutte le varietà, certamente è il più aromatico. Molto apprezzato è il pepe nero Sarrawak, originario di Giava, “potente”, con note decisamente resinose. E grande pepe è pure quello prodotto in India nello Stato del Kerala  e noto come Tellicherry Garbled Extra Bold.
Il pepe nero dà il meglio se macinato all’ultimo minuto per esaltare il sapore di carni bianche e rosse, formaggi freschi, pomodori verdi, frutti vari in insalata o cotti.
Pepe bianco – Colto a maturazione, è sottoposto a un procedimento di lavaggio in acque fresche e spazzolato per  ottenere una bacca liscia e bianca. E’ importante controllarne la provenienza perché alcuni produttori poco scrupolosi aggiungono enzimi all’acqua per accelerare la lavorazione.
Varietà e provenienze consigliate:  Muntoq (isola di Bangka, mare di Giava), Sarawak (simile al Muntoq, prodotto nella regione di Sarawak, Isola del Borneo (Malesia), Malabar (Kerala, India Meridionale), Punja (Cameroun).
Il pepe bianco è più delicato del pepe nero ma anche meno aromatico e perciò dà il meglio se utilizzato in cottura per minestre, salse chiare,  per preparare il pepe mignonnette (cioè frantumato e non macinato)  da usare con le bistecche in padella o alla griglia.
Pepe verde – Le bacche sono colte prima della maturazione e conservate in salamoia o aceto oppure liofilizzate, metodo questo che ne conserva intatto l’aroma. “Inventato” da Paul Corcellet, grande mercante di spezie parigino del dopo-guerra, il pepe verde conobbe uno strepitoso successo con l’avvento della nouvelle cuisine. 
E’ poco piccante, molto più fresco dei “fratelli”, accompagna perfettamente anatra (o altri volatili) e frutti di mare.
Pepe rosso – Bacche arrivate a maturazione ed essiccate all’aria o liofilizzate. E’ simile al pepe bianco ma evidenzia note leggermente resinose e  sentore di limone.  Viene sovente confuso con il pepe rosa e questo non ne facilita la diffusione.
E’ molto gradevole nelle insalate e sul pesce.

Gli speciali

 


Pepe lungo (piper longum o officina rum), originario del Ghana, vanta aromi unici: fioriti, poco piccanti, caldi con sentore di legno e un retrogusto di noce moscata e liquirizia. E’ il pepe ideale per esaltare i sapori della frutta sia fredda sia calda.  In Africa è usato anche per aromatizzare il caffè.



Pepe a coda o cubebe, forse il primo conosciuto in Occidente: originario dell’India, sembra che abbia preceduto il pepe nero nel bacino mediterraneo. Molto utilizzato nella cucina del Medio-Oriente e in quella magrebina, entra nella composizione di svariati mix.Appartiene alla famiglia delle Piperaceae, cresce spontaneo ed è coltivato nelle isole di Giava, Sumatra e nell'arcipelago malese, oltre che nelle Antille e in alcune parti dell'Africa. E' eccellente macerato nell’olio e per i piatti agro-dolci.


Pepe della Tasmania (Australia) – E’ un pepe raro, prodotto da un arbusto che cresce in montagna, nell’Australia Sud-orientale. Ha un profumo molto floreale, di rosa selvatica. Inizialmente evidenzia un gusto fresco simile a quello dei frutti di bosco che diventa poi piccante e persistente. Gradevolissimo con formaggi, stufati e salse che si colorano di rosso intenso.



Il  pepe-non-pepe

Bacche rosa dette anche pepe d’America o del Brasile -  Questo falso pepe fa meraviglie sui piatti di sapore con fondo dolce, dal pâté alle castagne, alla zucca, alla patata.
Grani del Paradiso o pepe di Guinea – Per lungo tempo usata come sostituto del pepe vero, questa bacca è originaria dell’Africa occidentale e appartiene alla famiglia dello zenzero. Ha un sapore piccante ma aromi discreti- E’ stata molto utilizzata nella cucina medievale.
Pepe della Giamaica -  E’ il frutto di un albero della famiglia del mirto e nasce solo nei Caraibi. Le bacche, della dimensione di un pisello o poco meno, sono molto aromatiche: profumo di cannella, di noce moscata, di garofano… non a caso gli inglesi hanno battezzato questo pepe con il nome di “all spices”. Molto gradevole per salse o marinate, è straordinario con insalate, arancia, pollame, stufati.
Pepe di Sichuan – Famiglia dell’acacia, poco piccante, sapore netto di anice e limone. Delizioso  con i frutti rossi,  è ottimo con i pesci e, in generale con piatti dal sapore dolce.
Pepe di Cayenna – E’ un pimento, polverizzato. Ha sapore bruciante ma, utilizzato con parsimonia, dà vigore a molti piatti altrimenti anonimi: farce, salse, ragù di verdure.

 

 Le ricette


Spaghetti alla gricia

 Spaghetti (non sottili) gr. 400 -  guanciale di Amatrice gr 250 – pecorino di Amatrice 150 gr 
pepe nero  macinato 1 pugno - strutto 1 cucchiaio - sale qb
 
Affettare il guanciale a striscioline lunghe e tutte dello stesso spessore. In una padella di ferro sciogliere a fuoco vivo un cucchiaio di strutto, distribuendolo bene su tutto il fondo. Unire il guanciale – con  i ¾ del pepe nero macinato - e far rosolare per un paio di minuti fino a doratura.  Cuocere gli spaghetti in abbondante acqua bollente e salata, scolarli ben al dente e versarli (non troppo asciutti) nella padella di ferro, saltandoli accuratamente. Aggiungere il pecorino grattugiato e il restante pepe nero.

Piccoli consigli utili:  La preparazione è semplice ma da curare con grande attenzione, a partire dagli ingredienti. Il sito “ufficiale” della pasta alla gricia (o amatriciana bianca), dice chiaramente: 1) Il guanciale deve essere guanciale (di Amatrice) e non genericamente lardo o pancetta. La parte della guancia è infatti la più pregiata perché morbida e con un giusto mix tra grasso e magro. Deve essere affettato a striscioline e non a dadini perché quest'ultimo taglio rende secche le parti magre. 2) Usare solo pecorino di Amatrice, di sapore delicato, non salato e leggermente piccantino (quello romano  è forte e salato).  3) Il grasso di cottura deve essere strutto il cue morbido e delicato mentre l'olio, per via dell’acidità, altererebbe  il sapore della preparazione; 4) controllare attentamente la rosolatura: il guanciale non deve apparire né lessato né bruciato; 5) la padella di ferro è di rigore.

Filetti di salmone marinati con salsina ai tre pepi

 

Filetti di salmone 800 gr – vodka 2 bicchierini – pepe verde in grani 1 cucchiaino - pepe rosa in grani 1 cucchiaino -  pepe bianco macinato 1 cucchiaino – 4 cucchiai di panna
olio extravergine d’oliva qb – sale qb
Controllare attentamente l’assenza di spine. In contenitore adeguato (bene la porcellana, no alluminio)  stendere i filetti, cospargerli con il pepe bianco macinato e irrorarli con la vodka. Lasciare in infusione per un tempo variabile tra i 30 e 60 minuti. Preparare una padella di ferro con l’olio e scaldarlo bene ma senza portarlo al punto di fumo; immergere i filetti che saranno stati asciugati accuratamente con un canovaccio o carta assorbente e passati in un velo di farina, ; friggerli brevemente, lasciando rosa la parte interna; scolarli, assorbire il grasso di cottura con carta assorbente, impiattarli, mantenendoli caldi. In una seconda padellina unire marinatura, panna, pepe verde e pepe rosa;  scaldare amalgamando bene gli ingredienti fino a ottenere una salsina non troppo liquida.   Versarla sui filetti. Se gradito, può essere aggiunto un trito di prezzemolo e/o erba cipollina tagliata fine fine (nel caso, poco dell'uno e/o dell'altra).

Torta cioccolato e pere con... macinata 

 

Farina 25 gr – cioccolato fondente extra 125 gr – zucchero a velo 80 gr  + qb per finitura – uova 4  - burro 65 gr – pere 2 di media grandezza – scorza d’arancia – pepe nero una generosa macinata sale un pizzico
Togliere dal frigorifero il burro, pesarlo e metterlo a tocchetti su un piattino per farlo ammorbidire. Sciogliere a bagno-maria il cioccolato spezzettato; unire lo zucchero a velo amalgamando bene; sgusciare le uova separando il rosso dal bianco; montare a neve ben ferma gli albumi, aggiungendo un pizzico di sale; battere leggermente i rossi, unirli al cioccolato fuso, fuori dal fuoco; aggiungere il burro ammorbidito (ma non fuso),  la farina  e mescolare molto bene (anche con un mixer); unire una generosa macinata di pepe nero e le pere sbucciate e tagliate a tocchetti. Concludere l’operazione aggiungendo a cucchiaiate i bianchi a neve, mescolando delicatamente con un cucchiaio di legno e un movimento dal basso verso l’alto. Versare l’impasto in una tortiera (da 22 cm) imburrata e infarinata oppure rivestita con carta da forno bagnata e ben strizzata. Cuocere in forno preriscaldato a 180 °C per 30 minuti (controllare a 20/25).

Nota generale: se non diversamente indicato, le dosi sono per 4/6 persone (dipende...)

Fonti: Wikipedia - www.webbjames.it - www.schianchitalia.com - www.pbmstoria.it - www.gricia.com - 
 Grazie